//Tra gli ulivi e i ciliegi

Tra gli ulivi e i ciliegi

di | 2018-09-08T18:15:51+02:00 3-9-2018 15:57|Alboscuole|0 Commenti
di REDAZIONE – Franco, come tutti lo chiamavano, era un bambino di sette anni che amava giocare tra i ciliegi e gli ulivi di quella terra rossa come il sangue dei suoi avi. Aveva diverse sorelle e due genitori assai severi che lo avevano educato molto bene. Lungo il tragitto che percorreva, quando tornava da scuola, passava sempre vicino all’antica arena romana della sua piccola cittadina di mare, poi si fermava ad aiutare il papà al panificio e, se capitava, anche la mamma in sartoria. Da tanto tempo non vedeva più i suoi zii né i suoi cugini: “erano partiti”, così dicevano tutti. Lui era solo un bambino e non capiva, ma qualcosa stava accadendo. Un giorno, però, dovette partire anche lui assieme alla sua famiglia. Lasciarono il panificio, la sartoria e i ricordi di una vita. Portarono con loro le fotografie e poche valigie piene fino all’orlo di vestiti. I mobili finirono dimenticati nel “Magazzino 18” di Trieste. Franco, prima di partire, andò a raccogliere un ciottolo di quell’anfiteatro a lui così familiare e lo mise in tasca: lo conserverà per sempre, gelosamente, come ricordo della sua terra, poi salì sul Toscana, che lo aspettava al porto e lasciò la sua città dall’altra parte del mare. Una volta in Italia fu trasferito, assieme alla sua famiglia, in un ex campo di concentramento nel quale continuò gli studi elementari e medi. Venivano trattati come bestie e accusati di essere fascisti: avevano la sola colpa di essere Italiani. Vissero nel campo per circa sette anni. Trovare lavoro era quasi impossibile: nessuno voleva dare lavoro ad un profugo. Da lì la famiglia venne trasferita in una casa popolare della periferia di Mestre. I primi tempi furono duri, ma Franco seppe rimboccarsi le maniche. Accettò un lavoro pericoloso nel petrolchimico, lavoro che nessun “vero italiano“ accettava di fare: saldare oleodotti in giro per il mondo, e venne mandato in Sud America e nel Nord-Africa. In quelle zone rivisse la guerra civile e rischiò più volte la vita. Nel frattempo in Italia erano nati due bambini, così decise di tornare a casa e rimanervi, e lasciò il lavoro di saldatore. La sua era una bella casa che, però, non lo faceva sentire davvero a casa. Era e restava un profugo, un fascista scappato dal moto rivoluzionario di Tito. Quel suo cognome così particolare e slavo era un marchio, per lui e i suoi figli. Lui però era orgoglioso e fiero di sé: partito da una condizione di povertà e odio nei suoi confronti, era riuscito a crearsi un futuro lottando e faticando e senza mai ricevere un concreto aiuto da nessuno. Che ne è stato della sua vecchia casa e delle botteghe dei suoi genitori? Ora sono case di Croati che sembrano aver dimenticato tutta quella pagina di storia ma, nonostante gli anni, gli ulivi sono sempre là e le barche continuano a luccicare sotto il sole che abbraccia il porto di Zara. Franco oggi vive in un paese della Riviera del Brenta, ha due figli e quattro nipoti. E’ un po’ timido quando racconta la sua storia, ma non se ne vergogna, anzi e nonostante il suo Paese lo abbia ripudiato più e più volte, insegna ai suoi nipoti il significato della parola sacrificio e a non dimenticare che è stato perseguitato solo per essere Italiano in un altro paese.