“Ero a scuola per un corso pomeridiano, ero una ragazza introversa e silenziosa.
Mi vestivo con maglioni e pantaloni larghissimi, mi nascondevano ed era quello
che volevo . Quando sono andata in bagno lui mi ha seguita. Mi ha violentata e mi
ha lasciata per terra”. Queste le parole di una vittima di stupro. Un maglione e un
paio di jeans per la vittima saranno sempre “quei vestiti”, macchiati da segni
invisibili. Sono i vestiti che indossava il giorno in cui ha subito una violenza.
Su pannelli bianchi sono appesi magioni e jeans, vestiti a fiori, tailleur, tute,
pigiami, anche una divisa da lavoro. “Tutti abiti normalissimi, uguali a quelli che
ciascuna di noi indossa ogni giorno” spiega Simona Sforza, presidente
dell’assiciazione Libere Sinergie che a Milano ha presentato la mostra “Com’eri
vestita?” a marzo di quest’anno. Questo progetto si è poi esteso a molte città
italiane che hanno realizzato mostre in collaborazione con l’associazione citata
precedentemente. Il titolo di queste esposizioni richiama una domanda rivolta
spesso alle vittime, piena di stereotipi, “perchè- continua Sforza- presuppone
l’idea che la donna avrebbe potuto evitare lo stupro se avessi evitato di indossare
abiti provocanti”. A questa idea la mostra risponde con i capi che donne violentate
indossavano il giorno del loro stupro. Indomenti semplici, della quotidianità, ma
anche gonne e abiti che risaltano la femminilità. “Un no è un no e nessun
abbigliamento né atteggiamento giustifica una violenza. Con la mostra vogliamo
smanellare il pregiudizio che colpevolizza la donna che subisce delle molestie. La
colpa è sempre e solo di chi commette la violenza”. Il “se l’è cercata” è sbagliato
perchè un no rimane no con qualunque tipo di abbigliamento.
Carlotta Bulgarelli 3C