di ANTONELLO DARINO – Salve, mi chiamo Namet, e oggi, molto probabilmente, vivo uno dei giorni più importanti della mia vita: ottengo finalmente la cittadinanza italiana.
La mia storia inizia il primo marzo del 1997 e ha come protagonisti due giovani ragazzi, i miei genitori.
In questo fatidico giorno, mio padre, un ingegnere, salì su un volo diretto a Roma Fiumicino. Aveva deciso di lasciare la Turchia, accettando un’offerta di lavoro avanzata da un’impresa italiana.
Lasciava, quindi, a Bursa mia madre, con la promessa di ricongiungersi presto. Lei non voleva che partisse, non voleva rimanere sola, sapeva di non poter far a meno dell’uomo che aveva sposato pochi anni prima e che amava profondamente.
Dopo un anno e mezzo circa da quel primo marzo, mio padre era riuscito ad ambientarsi veramente bene in Italia. La mamma, invece, non ne poteva più della triste situazione in cui si trovava e, proprio per questo, decise, finalmente, di raggiungere mio padre, di ritornare a vivere insieme a lui, questa volta, però, in un contesto leggermente diverso: in Italia, a Roma, a una manciata di chilometri dal Colosseo, dai Fori Imperiali, tutti quei monumenti che hanno fatto la storia della città eterna e che, sostanzialmente, mi hanno vista crescere, perché io nacqui proprio da quei due genitori stranieri nella capitale, appena un paio di anni dopo.
Vivevamo in un quartiere non molto lontano dal centro città, ma abbastanza tranquillo: mi piaceva.
A sei anni, come tutti i miei coetanei, ho cominciato il mio percorso di studi. Fin da piccola la scuola mi è sempre piaciuta, anche se qualche insegnante non mi era molto simpatico. Fu proprio a scuola che una mia compagna mi convinse ad avvicinarmi alla pallavolo, lo sport che mi ha accompagnata durante tutta la mia adolescenza e che considero ormai una vera e propria passione.
Con il passar degli anni, mi rendevo conto sempre di più di vivere in un luogo veramente fantastico. D’altronde non era un caso che tra le vie della mia città vedevo ogni giorno passeggiare molti più turisti che romani, gente proveniente da ogni parte del mondo, tutti con il naso all’insù, ad ammirare le nostre grandi “opere d’arte”.
Anch’io amavo girare per Roma. Con i miei amici o con i miei genitori mi piaceva passeggiare tra chiese, piazze, fontane, tutti monumenti che rendevano speciale e magica questa città a cui ero e, ancora oggi, sono molto legata.
Ogni tanto, andavo anche in Vaticano. Lì, però, non andavo solo per godermi la bellezza di quel posto.
Io, come i miei genitori, sono musulmana, però, dal 2013, da quando da quella finestra così lontana di piazza S. Pietro cominciò ad affacciarsi quel Papa così vicino alla gente, ogni tanto mi piaceva andare ad ascoltarlo. Non so, può sembrare strano, ma le umili parole di quell’uomo mi hanno sempre rallegrata, la sua visione del mondo è sempre stata per me un’overdose di speranza.
Nel frattempo, avevo continuato a coltivare la mia passione per la pallavolo. Qualche anno più tardi, proprio nella capitale, vennero organizzate le selezioni per la nazionale Under 16 femminile. Il nostro allenatore doveva indicare un paio di ragazze del gruppo, a cui la società poteva dare l’occasione di partecipare alle selezioni. Io ero una delle pallavoliste più promettenti nella squadra, eppure il mister non mi scelse.
Appena appresi la notizia, su due piedi ci rimasi veramente male, l’allenatore lo notò e mi spiegò che non ero stata selezionata a causa di alcuni problemi burocratici, poiché non possedevo la cittadinanza italiana.
Io, effettivamente, sapevo di non avere la cittadinanza italiana, però, non avevo mai pensato che la mancanza di un documento potesse condizionare la vita di ogni giorno.
Cominciai, così, a interessarmi a questa questione. Avevo capito che non si trattava di una cosa da niente. Non ci avevo mai pensato seriamente, ma, in effetti, ero nata e cresciuta in Italia, però, ero straniera, straniera per legge.
Da subito iniziai ad informarmi riguardo le procedure per ottenere la cittadinanza. Vidi che il procedimento era lungo (circa due anni) e che potevo cominciare le procedure dopo aver compiuto i sedici anni, per poter ottenere la cittadinanza solo al compimento del diciottesimo anno d’età.
La mancanza di quel documento, di giorno in giorno, si presentava come un ostacolo sempre più grande, che non mi poneva alla pari dei miei amici e coetanei, facendomi sentire, in alcune circostanze, molto male, perché impotente e senza una precisa identità: ero una straniera in una terra che sentivo mia!
In questi anni, infatti, mi ritrovai di nuovo di fronte a varie difficoltà burocratiche. Per esempio, nonostante il mio ottimo rendimento scolastico, non potevo partecipare a bandi di concorsi per l’ottenimento di borse di studio offerte dallo stato, non ho potuto vivere, in quarto liceo, come alcune mie compagne di classe, un’esperienza formativa di studio all’estero, poiché soggiornare in un paese straniero per parecchio tempo avrebbe potuto interrompere gli anni di residenza continua in Italia, determinando un intoppo procedurale.
Non ero né protetta né tutelata dalla Costituzione. Addirittura, se le procedure per l’ottenimento della cittadinanza fossero durate più del previsto, compiuti i diciotto anni, non avrei avuto neanche il diritto al voto.
Ero convinta che bastasse amare il mio paese, la mia città per farne parte, ma, crescendo, ho capito che non era proprio così.
Non rinnegavo affatto la mia “doppia identità”, anzi ritenevo fosse un gran valore, però, nonostante il massimo rispetto che nutro verso le mie origini, non potevo non affermare che io, fondamentalmente, mi ero sentita sempre molto più italiana che turca.
Amavo l’Italia, la consideravo la mia patria, apprezzavo la cultura e gli usi del Belpaese. L’Italia mi aveva cresciuto, era il paese in cui studiavo. Della Turchia, purtroppo, sapevo ben poco, quasi niente, proprio per questo mi sarebbe piaciuto visitare, un giorno, Bursa, la città natale dei miei genitori.
Dunque, io amavo l’Italia, però, sfortunatamente, non potevo affermare che questa splendida nazione ricambiasse i miei sentimenti. Io riconoscevo l’Italia come una vera e propria madre, però, vedevo che lei non accettava me come sua legittima figlia.
Oggi, finalmente, dopo questo lungo percorso, molto tortuoso e per niente semplice, avendo compiuto i tanto attesi diciotto anni, ricevo la cittadinanza italiana. Posso dire che il mio paese, dopo aver tanto aspettato, mi ha definitivamente “accettata”.
Oggi, posso affermare, dopo tanto tempo, molti problemi burocratici, moduli e richieste, di essere un’italiana a tutti gli effetti.
La mancanza di quella tanto desiderata cittadinanza, senza dubbio, mi ha impedito di fare tante cose e, probabilmente, mi ha fatto perdere anche tante buone opportunità. Questo giorno, per me rappresenta un grande traguardo, la vittoria di un’ardua battaglia.
In Italia, attualmente, vivono circa un milione di bambini, nati nel nostro paese da genitori stranieri, che vivono o si apprestano a vivere la mia stessa situazione, lo stesso disagio, la stessa rabbia e l’identica malinconia. Questo gigantesco esercito di ragazzi non merita di perdere tutte le occasioni che a me sono state negate. La legge vigente sulla cittadinanza è semplicemente anacronistica. Non riconoscere queste persone come italiani a tutti gli effetti è un’autentica assurdità.
La nostra nazione, perciò, deve compiere un solidale atto di grande civiltà proprio per richiamare quei principi fondamentali di uguaglianza, solidarietà e non discriminazione tanto celebrati nella nostra Costituzione e che sono alla base della nostra Repubblica: l’Italia deve legittimare questi suoi figli.