di MARTINA DEPLANO –
Il breve romanzo di Claudio Morandini intitolato
Neve, Cane, Piede è ambientato in un vallone alpino, regno incontrastato di Adelmo Farandola, un vecchio folle e scorbutico, che ha scelto di vivere in un isolamento assoluto; a fargli compagnia soltanto le voci degli animali, in particolare quella di un cane, affamato e testardo, e gli scricchiolii del ghiaccio. Sarà il disgelo a portare l’incomodo imprevisto, che minerà il già fragile equilibrio del protagonista, facendogli perdere completamente il senso della realtà fino al tragico finale della vicenda. Il titolo asindetico, oltre a riassumere gli elementi fondamentali del racconto, dà al lettore indicazioni sul tipo di scrittura usata dall’autore: una prosa essenziale, una lingua netta, scabra e tagliente, adatta a descrivere una montagna che non ha nulla di idilliaco e romantico, ma si rivela aspra, crudele e spietata, un luogo ostile che fa cadere e sprofondare le proprie creature piuttosto che innalzarle.
Adelmo Farandola non è il tipico montanaro saggio, detentore di una sapienza antica: non coltiva la terra né alleva animali, è un vecchio aggressivo, pieno di ossessioni, diffidente verso il prossimo; un uomo che vive allo stato ferino, in un eterno presente, poiché del futuro non si interessa e sta perdendo i ricordi del passato a causa della demenza; per lui conta solo sopravvivere all’inverno, aspettando il disgelo. Con il procedere della narrazione, attraverso i suoi ricordi confusi e le molte contraddizioni, scopriamo che Adelmo in gioventù ha subito un forte trauma che lo ha segnato per sempre e per questo motivo nella solitudine ha trovato riparo dal male della vita e nel grembo della terra, tra le rocce che ben conosce, egli troverà un rifugio definitivo:
Adelmo Farandola ha scoperto i vantaggi della solitudine da giovane, durante un lungo periodo di fuga tra boschi, dirupi e miniere abbandonate… Erano anni di guerra, in cui le vallate erano battute da uomini incappottati che masticando parole incomprensibili mettevano in fila quelli che gli capitavano tra i piedi e li fucilavano senza tante storie… In quegli anni di guerra Adelmo ha imparato il conforto di parlarsi da solo e di immaginare le voci delle bestie e delle cose pronte a rispondergli.
Accanto a lui fino all’ultimo momento un vecchio cane cocciuto e saggio, il suo
alter ego ironico e divertente, che, grazie all’ottimo fiuto, durante una passeggiata scoprirà il cadavere di un uomo travolto da una valanga, evento che strappa il protagonista dalla sua
routine ossessiva, spingendolo in una follia senza ritorno:
Si avvicinano al fronte della valanga.
Adelmo Farandola è contento, perché ha già intuito che cosa può aver attirato l’attenzione del cane.
Dai cumuli di neve, con il passare del tempo, emergono sempre corpi di animali morti, di camosci e stambecchi e capri in fuga, che lo schianto ha fatto a pezzi, ma che il gelo ha conservato freschi.
-Che bestia è?-chiede al cane.
Il cane zitto.
-Non sai che bestia è?
-Non è una bestia-sussurra il cane, immobile.
L’altro protagonista del romanzo è il paesaggio montano che circonda il vecchio, un mondo antropizzato, pieno delle voci delle creature che lo popolano (corvi, volpi, stambecchi), che interagiscono continuamente con Adelmo e dei mille suoni della natura, in particolare il rumore della neve e del ghiaccio:
La gente immagina che la montagna sotto la neve sia il regno del silenzio. Ma neve e ghiaccio sono creature rumorose, sfrontate, beffarde. Tutto scricchiola, sotto il peso della neve e sono scricchiolii che tolgono il respiro, perché sembrano preludere allo schianto di un crollo… Le grandi valanghe parlano con boati spaventosi, che riempono di orrore, e con il sibilo feroce dello spostamento d’aria… Ogni fiocco percuote le finestre e le superfici con un rumoretto nervoso… Sono i rumori familiari dell’eterno inverno per Adelmo Farandola sepolto dalla neve.
Il finale aperto lascia molti dubbi nel lettore, sia sull’identità del morto sia sulle eventuali responsabilità del protagonista; nell’appendice, invece, l’autore racconta dettagliatamente come l’idea del romanzo sia nata dall’incontro reale con un vecchio eremita e il suo cane:
Io l’ho incontrato davvero, l’uomo di cui ho raccontato la storia in questo libro e a cui ho dato il nome per metà improbabile di Adelmo Farandola. Una domenica, mentre salivo per un sentiero rapido e sdruccioloso, la lingua fuori, hanno cominciato a piovermi addosso pigne e anche qualche sasso… Ho visto un vecchio che mi aspettava a gambe larghe sul sentiero e teneva una pigna in una mano e un sasso nell’altra. Era solo, a parte un cane gonfio di pelo e incredibilmente sporco al suo fianco.
L’uomo mi guardava da sotto un cappellaccio sudicio. L’ho salutato, sperando di ingraziarmelo per proseguire incolume. Non mi ha risposto. Gli ho sorriso, appena appena però. Non ha sorriso.
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