A Ginosa, l’11 gennaio, sono venuti a scuola i “Sound Power Service”, che ci hanno parlato delle persone vittime della mafia, raccontandoci la loro storia. Il primo di cui ci hanno parlato è stato Peppino Impastato, un giornalista siciliano, un attivista italiano, membro di Democrazia Proletaria e noto per le sue denunce contro Cosa Nostra, per le quali fu assassinato il 9 maggio 1978. I telegiornali e i giornali dicevano che doveva essere un pazzo terrorista, che prima di farsi esplodere su una ferrovia, avrebbe sbattuto volontariamente la testa su una roccia. Invece era la storia di un ribelle a Cosa Nostra, ma soprattutto la storia di un depistaggio. Un caso insabbiato e cioè: i mafiosi protetti dallo Stato.
Il 2° di cui hanno parlato è stato Giovanni Falcone, un magistrato italiano, assassinato per opera di Cosa Nostra. È stato ucciso il 23 maggio 1992, data importantissima per i palermitani perché dietro di sé porta i segni del dolore, della paura e un po’ di speranza. Questa data viene ricordata come “la strage di Capaci”: in un tunnel dell’autostrada, che collega Palermo a Mazara del Vallo, furono nascosti 500 kg di tritolo, che furono fatti esplodere a distanza, proprio nel momento in cui Falcone stava passando con la sua scorta, uccidendo non solo lui ma anche sua moglie e tre uomini della scorta. Dopo Falcone è stato ricordato Paolo Borsellino, un altro magistrato ucciso da Cosa Nostra, insieme ai cinque agenti della sua scorta. Fu assassinato quando andò a trovare la madre in via D’Amelio e una macchina parcheggiata lì vicino, carica di tritolo, esplose. La sua morte è accompagnata dal mistero dell’agenda rossa: un’agenda da cui lui non si separava mai, sulla quale avrebbe scritto i nomi di alcuni mafiosi e che non è stata mai trovata. Tra questi uomini che hanno lottato contro la mafia si è parlato anche di una donna, che ha avuto il coraggio a soli 18 anni di protestare contro i soprusi mafiosi e di collaborare con la giustizia e con Borsellino: Rita Atria. A differenza di suo fratello e suo padre che appartenevano ad una cosca mafiosa lei invece condannava questa cultura di mafia e quando morì Borsellino, il suo sogno di un mondo pulito e onesto si spezzò e lei si suicidò.
Poco dopo la metà del recital, gli attori hanno interpretato il monologo “Mi chiamo Giancarlo Catino”, che racconta cosa prova questo ragazzo, vittima del bullismo, dai 6 anni, in prima elementare, bullizzato da Andrea Rozzi, ai 14 anni, in primo superiore, al liceo scientifico, quando vince il più vigliacco della sua classe, abbracciandolo nella palestra della sua scuola.
Poi si è parlato di don Pino Puglisi, beato. Giuseppe Puglisi nacque il 15 settembre 1937 nel quartiere periferico di Brancaccio, a Palermo, cortile Faraone n. 8, dal padre Carmelo, calzolaio, e dalla madre, Giuseppa Fana, sarta. A 16 anni entrò nel Seminario arcivescovile di Palermo. Il 2 luglio 1960 fu ordinato sacerdote dal cardinale Ernesto Ruffini. Per diversi anni rivestì diversi incarichi e riconciliò 2 famiglie mafiose a Godrano (PA), nei suoi anni da parroco nel paesino. Il 29 settembre 1990 divenne parroco a san Gaetano, a Brancaccio, dove tolse dalla sicura futura vita mafiosa, bambini di strada, inimicandosi i fratelli Graviano, legati al boss Leoluca Bagarella, che lo minacciarono segretamente. Nel 1993, il 29 gennaio, inaugurò a Brancaccio il centro “Padre Nostro” e insegnò in diverse scuole. Il 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno, intorno alle 22.45 venne freddato con dei colpi alla nuca davanti al portone di casa sua. I funerali si svolsero il 17 settembre, fu beatificato il 25 maggio 2013 a Palermo, nel Foro Italico, ed è ricordato il 21 ottobre. Sulla sua lapide, nel cimitero di sant’Orsola a Palermo, sono scolpite le parole: “
Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Dopo questo percorso tra bullismo e mafia, gli attori hanno cantato una serenata per far capire a noi ragazzi che la Sicilia non è solo mafia, ma anche, e soprattutto, cultura, storia e tradizione.
“E vui durmiti ancora!” fu scritta da Giovanni Formisano nel 1910 e fu musicata da Gaetano Emanuel Calì. Fu inciso a Firenze nel 1927, mentre nel 1910, in una sola notte, Calì aveva scritto lo spartito del brano musicale, detto “mattutina”, e fu portata al successo dal soprano Tecla Scarano, al Teatro Sangiorgi di Catania, che inaugurò il mito di questa canzone. Si dice che un giovane soldato siciliano, sul fronte della Carnia, durante la Prima Guerra Mondiale, intonò la canzone, accompagnato dalla sua chitarra, al chiarore di luna, e questo inno catanese e siciliano, fu molto apprezzato dagli Austriaci, che, però, non ne capirono il significato.
Lu suli è già spuntatu di lu mari
e vui, bidduzza mia, durmiti ancora,
l’aceddi sunnu stanchi di cantari
e affriddateddi aspettanu ccà fora;
supra ‘ssu barcuneddu su pusati
e aspettanu quann’è ca v’affacciati.
Lassati stari, non durmiti cchiui,
ca ‘nzemi a iddi, dintra sta vanedda,
ci sugnu puru iù, c’aspettu a vui,
ppi viriri ‘ssa facci accussì bedda;
passu cca fora tutti li nuttati
e aspettu suru quannu v’affacciati.
Li ciuri senza vui non vonnu stari,
su tutti ccu li testi a pinnuluni,
ognun d’iddi non voli sbucciari,
si prima non si rapì ssu barcuni.
Intra li buttuneddi su ammucchiati
e aspettanu quann’è ca v’affacciati.
Lassati stari, non durmiti cchiui,
ca ‘nzemi a iddi, dintra sta vanedda,
ci sugnu puru iù, c’aspettu a vui,
ppi viriri ‘ssa facci accussì bedda;
passu cca fora tutti li nuttati
e aspettu suru quannu v’affacciati.
Infine, alcuni ragazzi hanno posto delle domande agli attori. Questa rappresentazione teatrale ha saputo descrivere bene quelle persone che hanno avuto coraggio e senso della giustizia ed è per questo che non devono essere mai dimenticati. È stato un recital sapiente e interessante.
Paolo Cascardi
Cristian Trentadue
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