di Rebecca Colonna e Francesco Manca– Quest’anno abbiamo partecipato ad un concorso dal titolo: ”I giovani ricordano Shoah” ed abbiamo affrontato i temi inerenti la persecuzione razziale dei nazisti contro gli ebrei .
La nostra formazione ha previsto l’analisi di documenti storici, video, lettura di un testo dal titolo:” E il vento si fermò ad Auschwitz”, la visita presso il Museo ed il quartiere ebraico della nostra città e l’incontro con la dott.ssa Paola Ardito, una docente impegnata da tempo, nella formazione di docenti ed alunni riguardo a queste tematiche.
E’ stato difficile per noi giovani del 21° secolo accettare l’idea che tutto ciò sia realmente accaduto durante la persecuzione ebraica da parte dei nazisti .
La vita nei ghetti e nei campi di concentramento è paragonabile all’inferno sulla terra.
Il termine shoah significa “TEMPESTA DEVASTANTE” questo perché milioni di esseri umani sono morti in modo crudele, ed il comportamento dei nazisti viene paragonato dai superstiti alla ferocia dei lupi selvaggi.
Il cancello con su scritto “ARBAIT MACHT FREI” vuol dire “IL LAVORO RENDE LIBERI” , frase ironica che nasconde una vera industria dal massacro di un popolo, di una religione, di un corpo non perfetto secondo canoni del nazismo.
Chi entrava da quel cancello non usciva più vivo. I deportati arrivavano nei campi con treni merci, stipati come animali, qui venivano immediatamente sottoposti ad una rapida selezione . Pochi erano mandati a lavorare, molti invece erano condannati a morire nella camera a gas o nei forni crematori. I prigionieri abili al lavoro venivano spogliati, rasati e rivestiti con una casacca, dei pantaloni e degli zoccoli e veniva loro tatuato, sul braccio, un numero che serviva a catalogarli (ebrei, rom, omosessuali, sacerdoti, diversamente abili).
Il loro compito era quello di lavorare fino a dodici ore al giorno, malnutriti, al freddo, non riuscivano a sopravvivere più di sei mesi. Alcuni di loro sceglievano di morire folgorati, gettandosi sul filo spinato per sfuggire da quell’incubo. Neanche i bambini furono risparmiati, strappati ai genitori e spesso utilizzati come cavie per sperimentazioni.
I campi erano costruiti a semicerchio, da un lato c’era l’ospedale, la cucina, l’ufficio della Ghestapo, la prigione, la zona riservata agli esperimenti e il reparto dei forni crematori, dall’altra le baracche dei deportati che vivevano in duecento stipati in casette che ne potevano contenere al massimo cinquanta.
Condividevano bagni sporchi e piccoli lavatoi e la mattina la pulizia personale o semplicemente fare i propri bisogni diventava un incubo.
Conoscere la storia è importante ed noi siamo rimasti senza parola davanti al terrore e al dolore subito da milioni di persone. Riteniamo però che le testimonianze dirette erano poche perché sopravvissuti a quel tenore sono quasi del tutto scomparsi, e quelle indirette fanno sì che il mondo non dimentichi.
E’ la frase che ci ha colpito di più è ” La Germania non sconterà mai del tutto la sua condanna”. Siamo pienamente d’accordo: la sua condanna, pronunciata al processo di Norimberga, se pur ingiusta verso le attuali generazioni di tedeschi, ci deve far riflettere molto perché un genocidio di questa portata non accada più nel mondo.