2 Agosto 1994, Texas
Riecheggiano nel penitenziario di Huntsville le ultime parole del condannato a morte Robert Drew.
“Remember the death penalty is murder”
Ricordate: la pena di morte è omicidio.
Robert Drew è stato condannato per l’omicidio di un diciassettenne di Birmingham, Jeffrey Mays, a cui si era offerto di dare in passaggio insieme all’amico Ernest Puralewski, a patto di dividere le spese della benzina. I due avrebbero pugnalato il ragazzo fino alla morte con un coltello e abbandonato poi il cadavere in un fosso.
Quando il corpo della vittima fu rinvenuto, Puralewski si dichiarò colpevole sperando in una riduzione della pena. Ad incriminare invece Drew, professatosi innocente, fu la deposizione di un presunto testimone oculare, Bee Landrum, il quale descrisse meticolosamente alla giuria la scena del crimine e il modus operandi degli assassini.
Robert Drew fu quindi condannato a morte per iniezione letale, mentre al suo complice fu inflitta una pena detentiva della durata di 60 anni.
Mesi dopo la sentenza, nuove prove emersero a favore dell’imputato. Il coltello di cui Drew fu trovato in possesso non coincideva con l’arma del delitto, Puralewski ritrattò la propria deposizione, affermando di aver agito da solo, senza la complicità dell’amico, e Landrum ritirò la propria testimonianza, confessando di non essere stato in grado di vedere chiaramente l’assassino.
Ogni tentativo di far decadere le accuse fu vano: il giudice aveva ormai predisposto l’esecuzione di Drew, aggiungendo una faccina sorridente accanto alla propria firma sulla sentenza.
Robert Drew è solo una delle vittime dei numerosissimi probabili errori giudiziari cui è ormai impossibile fare ammenda.
Lo Stato del Texas ha deciso di punire un omicidio con la morte del suo presunto esecutore: una vita per una vita. Esiste giustizia in ciò?
La pena di morte non nasce come una forma di vendetta, quanto come una sorta di deterrente per scoraggiare la popolazione dal commettere crimini. Tuttavia, il parere di esperti e specialisti in criminologia sembra tendere verso la direzione opposta. È impossibile condurre un’esatta indagine analitica sulle motivazione che spingono a (non) commettere un crimine, ma le statistiche dimostrano come la condanna a morte non abbia in alcun modo condotto alla diminuzione del tasso di omicidi, così come la sua abolizione non ne ha causato l’aumento.
Ad oggi, in Italia, la pena di morte è una misura anticostituzionale e non è perciò prevista nel nostro codice penale, ma è ancora praticata in moltissimi paesi del mondo, come Cina e USA.
È chiaro che una simile punizione non abbia funzione educativa, tantomeno riabilitante, per coloro ai quali viene imposta, ma è anzi estremamente crudele e degradante.
Sebbene molti paesi abbiano infatti abbandonato le scenografiche esecuzioni capitali dei tempi passati per risparmiare al condannato i tormenti della tortura fisica, lo stesso non vale per quella psicologica. Inoltre, pur essendo meno cruenta per gli spettatori, sono incalcolabili i rischi cui si potrebbe andare incontro durante, ad esempio, l’iniezione letale, sia a causa dell’inefficacia dei farmaci utilizzati che dell’incompetenza del personale incaricato. Quella che doveva essere una morte rapida e indolore, rischia quindi di trasformarsi in un atroce condensato di dolore.
La morte è la via più semplice verso la soluzione del problema imminente: eliminiamo le cosiddette mele marce della società e facciamo vedere loro chi comanda, ma è anche una violazione di un diritto fondamentale, il diritto alla vita.
Sorge quindi spontaneo chiedersi: come può uno Stato condannare un omicida macchiandosi egli stesso del reato più grande di tutti, violando un diritto che dovrebbe invece garantire, attentando alla giustizia?
A voi l’ardua sentenza.