S.T. – Venticinque anni. È scoccato lo scorso 20 marzo questo crudele anniversario e non ha portato con sé né verità né giustizia. Venticinque anni dalla morte di Ilaria Alpi, la giornalista che, giovanissima, aveva cominciato a seguire inchieste in luoghi “caldi” dell’Africa grazie alle sue doti professionali, riconosciute da tutti nonostante la sua giovane età. Ilaria conosceva diverse lingue, tra cui l’arabo, nutriva un grande interesse per le vicende della politica internazionale, si impegnava in prima persona per questioni delicate come la condizione femminile in alcuni paesi africani, mettendo persino a rischio la propria sicurezza pur di realizzare i suoi servizi, potenti strumenti di conoscenza e di denuncia. Era partita per la Somalia nel 1992: in quel Paese era finalmente terminata la guerra civile ed era in atto una missione di pace voluta dall’ONU, alla quale partecipava anche l’Italia. Seguendo come corrispondente del TG3 questa missione, Ilaria aveva scoperto strani affari in cui si intrecciavano gruppi politici somali, servizi segreti italiani, interessi di imprenditori e faccendieri. Aveva cominciato a indagare, cercando informatori: tra questi, un sottoufficiale dei servizi segreti, misteriosamente ucciso poco dopo. La storia nella quale si era imbattuta cominciava ad assumere contorni più precisi e sempre più inquietanti, ma Ilaria non aveva paura. Aveva bisogno di aiuto, un bravo operatore che filmasse e documentasse quanto lei andava scoprendo. Un’amica giornalista le presentò Miran Hrovatin, che aveva attraversato gli anni terribili del conflitto nella ex -Iugoslavia e sapeva come muoversi in Paesi in guerra, violenti e pericolosi. Comincia così l’avventura di Miran e Ilaria, giornalisti d’inchiesta in una Somalia sconvolta dagli scontri civili e terra di nessuno, luogo ideale per tessere impunemente trame oscure. Quali? Ilaria scopre poco a poco i tasselli di un puzzle agghiacciante: navi che solcano il Mediterraneo e che fanno parte, almeno in superficie, di un progetto di cooperazione internazionale volto proprio a ricostruire e sostenere la Somalia dopo la guerra; in profondità, invece, quelle navi trasportano altro: rifiuti tossici provenienti dall’Europa e destinati a essere sepolti in Africa, veri e propri veleni per la terra e per la popolazione somala; armi destinate ai signori della guerra locali, forse in cambio di quello smaltimento illegale. Tra i porti italiani dai quali salpano le navi di armi e veleni c’è anche Gaeta, come ha raccontato Carmine Schiavone, esponente del clan dei Casalesi. Ilaria ha osservato, viaggiato, ascoltato, e ora sa. Ha girato filmati in cui denuncia tutto questo e sta per trasmetterli al TG3. È uno scoop enorme, destinato a creare non pochi problemi, perché lo scandalo coinvolge molti: imprenditori, politici locali, servizi segreti, forse addirittura una rete politico -militare che abbraccia tutta l’Europa e che in Italia si chiama Gladio, di cui fanno parte importanti uomini politici ed esponenti di spicco delle Forze Armate. In quel marzo del 1994 questa enorme montagna di scomode verità sta per essere portata alla luce da una giovane giornalista e dal suo operatore. Con coraggio Miran e Ilaria vanno avanti, raccogliendo le ultime testimonianze: a Bosaso, nella Somalia del nord, terra avvelenata dai rifiuti tossici, girano interviste e filmati, prima di tornare a Mogadiscio. È il 20 marzo, il più crudele dei giorni, come il regista Ferdinando Vicentini Orgnani ha intitolato il film che ricostruisce la vicenda dei due giornalisti. Miran e Ilaria sono sul loro pick up quando un commando di sette persone li segue, li raggiunge e spara. I giornalisti presenti a Mogadiscio, amici di Ilaria e Miran, arrivano sul posto: italiani, free lance americani, la televisione della Svizzera italiana. Tutti filmano in modo che resti un’immagine della verità prima che le tracce vengano confuse. Perché le tracce vengono confuse subito dopo. Da quel 20 marzo del 1994 la storia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin diventa una storia di indagini che non portano a nulla, di testimoni e documenti che si volatilizzano; durante il viaggio che riporta in Italia i corpi dei due giornalisti i loro bagagli vengono aperti: molti appunti di Ilaria e i filmati di Miran spariscono; l’unico a essere incolpato dell’omicidio, Homar Hassan Hashi, viene condannato a 26 anni di carcere nel 1998, ma liberato nel 1999: chi lo accusava ha mentito. Sono state seguite diverse piste per spiegare la violenza: una rapina, un’azione di militanti islamisti, una vendetta dei somali contro gli italiani, il cui esercito poteva aver commesso soprusi contro la popolazione. Accuse cadute e piste rivelatesi false una dopo l’altra. I genitori di Ilaria per anni hanno cercato di sapere che cosa fosse realmente successo, sentendo però che qualcosa di potente ostacolava la scoperta della verità: “Il potere” ha detto dopo anni il padre di Ilaria “ha una sola arma, prenderci per stanchezza”. Ora sono morti, ma continuano a chiedere verità i giornalisti amici e colleghi di Ilaria e Miran, che si oppongono a ogni nuovo tentativo di archiviare le indagini e di definire l’assassinio come un atto di comune delinquenza locale. Per non dimenticare e per ottenere finalmente giustizia non si stancano di raccontare, filmare, scrivere e qualcuno persino di disegnare: nel graphic novel Ilaria Alpi. Il prezzo della verità le parole di Marco Rizzo raccontano questa storia tragica che ci riguarda da vicino, mentre i disegni di Francesco Ripoli mostrano gli scorci di Mogadiscio, le strade, i volti, gli occhi coraggiosi di Ilaria e di Miran che hanno avuto la forza di guardare in faccia la verità e di farcela vedere, pagando con la vita la loro missione di giornalisti.