//PAESAGGI DI CITTA’, TRA CENTRO E PERIFERIE

PAESAGGI DI CITTA’, TRA CENTRO E PERIFERIE

di | 2019-05-31T17:15:37+02:00 31-5-2019 16:59|Alboscuole|0 Commenti
Nella sesta serata di “Il Libroscopio”, a Noicattaro,  durante la prima settimana della cultura scientifica organizzata dall’associazione Ali di Carta – Presidio del libro di Noicattaro, si è parlato di spazio pubblico e nuove forme di comunità. Si è parlato di paesaggi, della coscienza dei luoghi, della facoltà di comprendere quale sia la distribuzione e le attività dei cittadini. Si sono affrontati temi relativi agli spazi pubblici ed alle previsioni di nuove prospettive future. Sugli argomenti suddetti, sono intervenuti ospiti d’eccezione ed esperti del settore.

Ad introdurre i temi trattati è stato l’Assessore allo sviluppo del territorio del Comune di Noicattaro, Vito Santamaria, il quale ci ha mostrato un contributo fotografico relativo al nucleo antico della città di Noicattaro, scattato durante un pomeriggio da flâneur, passeggiatore svagato e curioso. In quell’occasione egli ha riscoperto luoghi evocativi del tempo che furono: un tratto di muraglia del Cinquecento su Via Antica, un segmento  di fossato ancora presente, ed è questo un aspetto caratteristico di questa cittadina di Puglia; gli ipogei, vecchie abitazioni sotterranee, che oggi sono stati trasformati in cantine, dove in passato hanno vissuto i nostri avi in Via San Pietro e Paolo, una delle prime zone abitate del paese, sin dall’anno Mille.

Oggi, ci sono altre generazioni che vivono in quegli “usi” o “chiusi” e così si torna ad una delle domande centrali del presidio: “La nostra città è gabbia o è finestra?”. L’assessore Santamaria ha riscontrato nella gente che vive nel “chiuso” la dignità in un comportamento adeguato. “Là dove c’è vita e c’è la cura del proprio luogo d’appartenenza, non c’è disprezzo, ma solo dignità”.

Ed ecco, ancora, la foto che ritrae lo strato murario antico a destra e a sinistra delle viuzze del paese vecchio, verso Via Arco Favuzzi e Via Orologio Vecchio, fase ultima di espansione del nucleo antico verso la piazza. Qui ritroviamo la conurbazione, cioè il nucleo principale della città, attorno al quale si collegano centri urbani minori. Di qui l’ampliamento, man mano che l’economia del paese cresceva. Oggetto dell’attuale rigenerazione urbana è il Palazzo Ducale dei Caracciolo, poi Montedoro, di cui riporta lo stemma, poi Crapuzzi, oggi Di Vittorio, che testimonia il fasto e la ricchezza nonché come, in maniera utopistica, si volevano incrociare le due realtà, il borgo antico, con la sua collettività omogenea, e l’alta borghesia.

Oggi, invece, osserviamo, da un lato, un Palazzo Ducale vuoto e in decadimento per incuria, dall’altro la ristrutturazione di Via Fossato riattata con migliorie edilizie, costate all’amministrazione 350.000 euro e rimasta, nonostante tutto, un contenitore vuoto. In prossimità di Largo Pagano, c’è il bello, la cura e il fascino di Via Cesare Battisti, che guarda il fossato: dove negli anni ottanta pullulava la vita, oggi regna sovrano il silenzio. Obiettivo dell’attuale amministrazione è quello di agevolare gli interventi di ristrutturazione delle aree centrali della città, per creare spazi comuni aperti dove ritrovarsi. La città deve essere una, non divisa in ghetti. La città vive, se respira in osmosi tra centro e periferia: può essere policentrica, con funzioni dislocate, ma le varie parti devono interagire ed integrarsi.

A seguire, ecco il collegamento tramite Skype con Giovanni Santamaria, un giovane architetto di Noicattaro che ha studiato all’Università IUAV di Venezia ed ha conseguito il dottorato in Architettura e Design Urbano al Politecnico di Milano. Dopo alcuni anni di intensa attività nel campo della ricerca in tutta Europa, nel 2008 è andato ad insegnare alla Scuola di Architettura e Design del New York Institute of Technology, dove lavora a progetti internazionali. E’ uno dei responsabili degli accordi di scambio internazionale per il Politecnico di Milano, che porta al NYIT una media di cinquanta studenti all’anno, i quali ivi partecipano ad un workshop di design. E’ uno degli organizzatori della serie di docufilm “Città, immagine della città”.

L’architetto Santamaria propone un viaggio teorico e pratico dei luoghi e sostiene il bisogno di capirli, per poi sentirli nostri. Tutto ciò avviene grazie ad una ricostruzione urbana in rapporto all’uomo contemporaneo, che deve estendersi non soltanto al centro storico, ma reintegrare una rete di esperienze quotidiane, di necessità, di riattivazione, sulla scala dell’intero territorio, senza cui la reale centralità di un centro storico non riesce a sopravvivere. Si tratterebbe di rimettere a sistema questi centri storici, renderli parte di una rete infrastrutturale sensibile ed estesa, con la consapevolezza storica di quelle che sono le località dell’altrove.

Santamaria, a tal proposito, riprende quello che è il cambiamento di modello nell’ambito dell’architettura delle città e fa un’analisi di ciò che succede nel mondo, in ambito per lo più americano. Sostiene che la rigida divisione in due parti, tra città e campagna, non esiste più. La città si diffonde su una scala territoriale, si integra con il paesaggio, un paesaggio che non è ancora città, ma non è più campagna. E’ un paesaggio per lo più produttivo, con una infrastruttura logistica e ingegneristica importante. Oggi quel che più interessa capire è quanto questa città sia l’immagine di un elevato senso civico e culturale. Quindi teniamo conto non solo di paesaggi fisici, ma anche dei paesaggi culturali e ideologici, con uno sguardo alle idee e alla mentalità di una società. Importante è capire, prima di qualsiasi intervento, quali siano i nodi di fragilità di un territorio, per cercare di tutelarli ed evitare processi di consumo e di abuso, che possano ledere la struttura urbana, nella quale si verificano, poi, le connessioni con i territori estesi. Di qui, il concetto conclusivo è quello di prendersi cura del paesaggio urbano ed in questo trovare il luogo legittimo di sinergia e compresenza.

A conclusione dell’incontro, è intervenuto Vito Antonio Riondino, professore associato di Composizione Architettonica e Urbana presso il Politecnico di Bari e il Corso di Perfezionamento CESAR della “Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici del Paesaggio”. E’ stato consulente scientifico per la sistemazione dell’Archivio Ludovico Quaroni presso la Fondazione Olivetti a Ivrea ed è membro-fondatore della Società Scientifica Ludovico Quaroni, componente del comitato scientifico di ISFItaly; co-redattore della rivista internazionale L’Architettura della Città -The Journal of Scientific Society Ludovico Quaroni; componente del comitato scientifico della collana editoriale Forma Civitatis Books. Autore di lemmi per la nuova Enciclopedia di Architettura edita dalla UTET di Torino e di numerose monografie e saggi a carattere scientifico, pubblicati in volumi e riviste nazionali e internazionali, la sua attività da sempre prevalentemente incentrata sulla ricerca teorico-metodologica, applicata al progetto urbano-architettonico, si è andata svolgendo soprattutto attraverso la partecipazione a Corsi di Architettura, nei quali ha ricevuto premi e riconoscimenti nazionali ed internazionali, fra cui il “Leone di pietra per l’Architettura”, nel 2006, quale vincitore della decima Biennale di Architettura di Venezia.

Il relatore ha focalizzato l’attenzione sulle architetture e sui luoghi, che spesso hanno un aspetto inumano o disumano, ma che nascondono un linguaggio non immediatamente evidente. L’architettura deve essere intesa proprio come linguaggio, una vera e propria forma d’arte tecnica, quella che può far parlare l’indicibile. Di qui si passa a discutere della crisi che accompagna la nostra vicenda umana, crisi che coinvolge anche la scrittura urbana del paesaggio. Il prof. Riondino, pronunciando le parole di Kant, ci ricorda che la prima forma di “cogito” dell’essere umano è nel rapporto tra esso e la semantica dei luoghi. Filosofeggiando ancora, ha affermato che c’è una condizione aristotelica in questo: di fatto, le forme assumono un senso nell’attività umana, lì dove la loro riconoscibilità è pari alla scrittura. Il problema non è quello di pensare ai luoghi della crisi come a qualcosa di avulso della città: sono una testimonianza del nostro essere. Freud e, soprattutto, Jung affermavano che proprio in quei luoghi si nasconde la maggiore fertilità. Il concetto di urbanistica nasce in Italia, lo studio della città e dei rapporti col territorio nascono in Italia. Nel corso del Novecento, al centro del dibattito architettonico, tra metafisica e futurismo, si è discusso del rapporto tra tradizione e innovazione: da questo impossibile equilibrio, si possono ricavare delle potenzialità. Per comprendere la natura delle cose e i suoi processi, bisogna capire le ragioni delle loro crisi. Per esempio, molti centri storici, nella loro crescente e positiva riqualificazione, stanno subendo delle traumatiche rivoluzioni: molti edifici vengono utilizzati per attività di natura economica, ma hanno subìto delle trasformazioni terribili. Dobbiamo distillare le cose, e quindi giudicare scientificamente, riconoscere l’avanzamento economico che ha prodotto un ritorno all’umanità ma, dal punto di vista della scrittura, il centro storico è una babele, è un linguaggio che non aspira più a far parlare quelle forme, ma le usa come gli articoli di un immaginario commerciale. Molti scrittori del Novecento, Thomas Mann, Dickens, Italo Svevo, Pasolini, ci parlano di una città che è lo specchio della crisi umana: la città si fa il luogo della presa di coscienza della crisi umana. Non dobbiamo avere paura dei luoghi che non ci piacciono, ma cercare di capire se al loro interno può esistere una dimensione attraverso cui riscriverne l’estetica. Bisogna intervenire in quei luoghi dove si riscontra una sorta di discrasia o disfunzione. Ciò che può essere un disvalore, si può provare a farlo diventare un valore autoctono.

Germana Pignatelli, prendendo la parola, ha spostato l’attenzione sulla codificazione degli spazi pubblici, riconoscendo allo spazio pubblico ben progettato la capacità di suscitare nell’umanità la positività dell’utilizzo di quello spazio. Riondino appoggia la tesi della Pignatelli e aggiunge che l’unitarietà culturale può consentirci di gestire la crisi. Tuttavia, la crisi diventa opportunità nel momento in cui la si riconosce; il passato non insegna mai a risolvere il problema, ma ci mostra sicuramente il modo migliore di leggerlo e decifrarlo.

CRISTIANO DECARO, IV B LC