di SUSANNA SCAGLIOTTI (IIIA Classico) – A volte è solo una questione di anni. Nel nostro caso, ottanta.
1817. «La Polimnia è sul bilico ove gira al soffio dell’aria che spira nell’aprire una finestra, e all’appressarsi del dito mignolo d’una donzella produce un effetto meraviglioso». Polimnia è la Musa realizzata da Antonio Canova, qui descritta nelle parole del mecenate veneziano Leopoldo Cicognara, amico dello scultore.
1897. «A ogni epoca la sua arte, a ogni arte la sua libertà». Questo il motto che accoglie i visitatori del Palazzo della Secessione a Vienna, progettato dall’architetto Joseph Maria Olbrich.
Da una parte, quindi, l’imitazione degli antichi e la selezione degli elementi più belli in natura, mondati della loro transitorietà; dall’altra, l’elogio della transitorietà medesima, il definitivo allontanamento dall’accademismo con l’«affermazione della semplicità» (J. Hoffmann), l’esaltazione di visioni interiori e non più di atemporali valori estetici.
Come per ricucire lo iato che scinde il Neoclassicismo (e il Romanticismo) dalle Secessioni europee, negli ultimi mesi sono state allestite due mostre: “Canova, Hayez, Cicognara. L’ultima gloria di Venezia”, (Venezia, Gallerie dell’Accademia, fino al 2 aprile) e “Secessioni europee – Monaco, Vienna, Praga, Roma. L’onda della modernità”, (Rovigo, Palazzo Roverella, conclusasi di recente).
Il proposito di quella veneziana è duplice: celebrare il bicentenario della fondazione delle Gallerie dell’Accademia, responsabile del redivivo primato culturale di Venezia nell’Ottocento (si pensi al ritorno dei quattro cavalli di San Marco da Parigi, nel 1815), e riscoprire la figura per merito della quale il museo acquistò rilievo internazionale – il già citato Leopoldo Cicognara. Da presidente dell’Accademia di Belle Arti, l’erudito si impegnò nella valorizzazione del patrimonio artistico della città, oltre che nella scoperta di creativi, come gli amici Canova e Hayez.
Pur nelle varie sezioni tematiche, l’esposizione veneziana è dunque connotata a livello personalistico: impossibile, per lo spettatore, non percepire la grave presenza della triade Canova-Hayez-Cicognara, anche di fronte a quadri di altri artisti. La mostra di Rovigo, al contrario, si configura come una serrata successione dei nomi più insigni delle Secessioni monacense (interessanti alcuni von Stuck meno frequentati, nonché i molti manifesti e oggetti d’arredo), viennese (incantevoli le “Amiche” di Klimt), praghese (dove si incontra un ipnotico e poco noto Joseph Váchal) e romana (costituitasi una ventina di anni dopo rispetto alle altre).
Privilegiare un’ottica espositiva estesa può rivelarsi cosa accorta, in primis perché permette di evitare l’insidia dei grandi nomi che offuscano quelli meno celebri (insidia solo sfiorata nella mostra di Venezia); nondimeno, un egualitarismo come quello proposto a Rovigo rischia di sfociare nell’adimensionalità. Davanti alla gustosa occasione di sottolineare le giunture, solo accennate, tra le diverse Secessioni (per esempio, tra il misticismo di Praga e il simbolismo di Monaco), il curatore opta per una scansione aridamente paratattica, isolando le componenti in uno scrigno preziosissimo come un fondo oro di Klimt, ma sbarrato a salutari contaminazioni esterne. A ogni nuova sezione si lasciano alle spalle le suggestioni precedenti, in un continuum irrelato che, alla fine, presuppone una domanda: che cosa rimane? Poniamo il caso del nostro Paese: che cosa rimane della Secessione romana, in cui furono in un primo tempo coinvolti anche i futuristi? Rimangono tele dal gusto impressionista, macchiaiolo, perfino puntinista (il bel “Meriggio d’autunno” di Aleardo Terzi), ma certo poco secessionista. Gli artisti di due sale prima solo un ricordo, un miraggio. Può la bellezza delle singole opere riscattare una mostra complessivamente amorfa? Forse. Eppure, dispiace che la verve secessionista appaia così edulcorata.
La nettezza ignota all’esposizione rodigina è invece ben orchestrata alle Gallerie dell’Accademia. Il visitatore, oltrepassando opere che riassumono l’intera mostra in uno sguardo (irresistibile il Ritratto della famiglia Cicognara di Hayez, in cui un colossale busto scultoreo di Canova sovrasta i coniugi Cicognara) o piccoli e sapienti cammei (le stanzette dedicate al soggiorno di Byron in Italia, o al bibliofilo Giuseppe Bossi), è guidato da un allestimento minimale e cromaticamente riuscito verso il cuore della rassegna, la Musa Polimnia.
Concepita come ritratto divinizzato della sorella di Napoleone, Elisa Baciocchi, alla caduta del regime fu esposta alle Gallerie dell’Accademia. Ma anche quest’opera cela l’intervento del conte Cicognara: di fronte all’improba richiesta dell’imperatore Francesco I d’Austria di un tributo in denaro, che le province venete avrebbero dovuto versare in occasione delle sue quarte nozze in quell’anno 1817, il mecenate veneziano ottenne di convertire una parte dell’imposta nella realizzazione di opere da parte degli artisti dell’Accademia.
E così la Musa, emblema del genio scultoreo di Canova e del genio diplomatico di Cicognara, ieraticamente al centro della stanza, non teme «gli occhi distratti della moltitudine» (sempre Cicognara dixit), levigata e distante, silente ed eterna.
Certo, non sarà la moderna e conturbante femme fatale della mostra di Rovigo, più vicina alle aporie e alle tensioni del secolo (a un passo dalle Secessioni, il primo conflitto mondiale). Eppure, nella sua apparente estraneità, riesce a coinvolgere più di molti capolavori svuotati della loro essenza perché impossibilitati a guardarsi a vicenda.
Se le Secessioni di Rovigo si dissipano, loro malgrado, in un vaporoso quanto inconsistente ensemble di stimoli, ciò che colpisce è Venezia, con l’esempio di buon mecenatismo di Cicognara. Da cui, d’altronde, molto avrebbero da imparare gli intenditori di oggi.