di Maria Grazia Vellucci-3^D –
Dal 2000 a oggi le donne uccise in Italia sono 3.230, di cui 2.355 in ambito familiare e 1.564 per mano del proprio coniuge o ex coniuge.
Sono alcuni dei dati del Rapporto Eures 2019 su “Femminicidio e violenza di genere”, secondo cui a crescere dal 2018 sono soprattutto i femminicidi commessi in ambito familiare (+6,3%, da 112 a 119); diminuiscono invece gli omicidi maturati negli ambiti “di prossimità” (da 13 a 6 le donne uccise da conoscenti, in ambito lavorativo o di vicinato).
Finalmente viviamo in un’epoca che considera questo argomento degno di nota al punto da essersi meritato addirittura una giornata mondiale, che si svolge il 25 novembre con manifestazioni in tutto il mondo.
Una dedica, però, non è sufficiente, perché per cambiare la realtà dei fatti bisogna prima di tutto provocare un cambiamento radicale nella mentalità.
Le donne che subiscono violenza infatti non sempre trovano la forza per denunciare l’accaduto.
Si parte così: la prima volta è uno schiaffo o una presa un po’ troppo forte delle braccia, che genera qualche livido.
Alcuni lividi sono facili da nascondere, ma con il passare del tempo le ferite provocate diventano insanabili e si perde progressivamente la forza di reagire e di chiedere aiuto a qualcuno.
La seconda volta è un pugno, la terza un oggetto che viene lanciato contro.
La quarta potrebbe diventare l’ultima.
Violenza non è soltanto fare del male a una donna fisicamente: violenza sono tutte quelle azioni che si compiono contro la volontà di una donna.
Violenza è quando si fanno dei complimenti un po’ troppo spinti a una ragazza per strada, quando le si fanno delle battute sessiste che la fanno irrimediabilmente sentire inferiore.
Sentiamo dire da sempre che le parole hanno un peso e spesso possono ferire più delle azioni: usarle contro una donna in malo modo è un modo per farle del male, per denigrare il suo valore.