di Marzia Zarro – 3^C-
“3..2..1.. AUGURI” urlava il mondo alla mezzanotte del 1° gennaio 2020, contento di lasciare un anno fulminante, buono per alcuni, tremendo per altri.. punti di vista. Tutti orientati verso il nuovo, verso un altro anno, altri 365 giorni che avrebbero potuto cambiare le sorti della loro vita, tanto in meglio, quanto in peggio. Eppure, tra un bicchiere di prosecco e l’altro, nessuno si è soffermato ad immaginare qualcosa di inatteso, qualcosa che avrebbe intaccato il normale equilibrio quotidiano; ma d’altronde, chi se lo sarebbe mai aspettato? Beh, di sicuro non i giovani ragazzi impegnati a cogliere la giusta angolazione per una foto da pubblicare sui social, e nemmeno i signori anziani, innocenti e grati alla vita per avergli dato l’opportunità di trascorrere un’altra, e forse l’ultima, festa in famiglia. Si festeggia, ci si diverte, e ormai fatta l’alba, si torna a casa, per dormire e ricaricarsi per il pranzo del giorno successivo. La vita continua, per tutti, dai più piccini ai più anziani, tra un debole e affaticato buongiorno ad un piatto di pasta divorato di fretta e furia, perché si deve tornare a lavoro! Tra una festicciola in famiglia, un compleanno e un sabato sera con i propri amici, trascorrono le settimane e i mesi.. e improvvisamente… il panico. Mi correggo, non del tutto “improvviso”, almeno per noi italici la notizia ci ha pervasi lentamente, folgorandoci però sul finale. È la fine di febbraio, e cominciano ad essere annullate le festività di paese, vengono chiuse le scuole per pochi giorni e comincia a sorgere tra gli abitanti la sfiducia, ogni forma di razzismo e disprezzo per chiunque ci si trovasse davanti. Era un continuo ascoltare esclamazioni del tipo: “Questi dannati cinesi che esistono a fare!” “E’ stato in Spagna? Quarantena!”, senza conoscere, senza sapere cosa fosse questo germe che si stava diffondendo, cosa comportasse e come andasse curato. Si inveiva contro i cinesi, come i proprietari dei bar che, per evitare il contagio, fissavano all’entrata dei cartelli per vietare l’ingresso agli orientali; ci si arrogava il diritto di parlare e commentare qualsiasi tipo di situazione, senza conoscerne le circostanze. Ma l’Italia non aveva ancora capito cosa stesse realmente succedendo nel grande stivale tricolore; sì, il telegiornale ne parlava sempre più frequentemente, ma ogni cittadino vedeva queste notizie lontane da sé stesso, come se fosse immune al contagio, lontano dal resto del popolo, o come se avesse un qualche contatto con il destino, chi lo sa. Le persone continuano ad uscire, soprattutto i giovani, che sostenevano in base a ciò che raramente leggevano sui social – “Il virus colpisce solo gli anziani, ho 22 anni, io a casa non resto” o ancora, – “Quando morirà un giovane, allora a quel punto comincerò a prendere la cosa sul serio”, e continuavano la propria vita. E poi, il 9 marzo: “Tutti a casa!”, ordina il Ministero dell’Istruzione: scuole e università chiuse, bar chiusi, ai supermercati si può accedere solo con le apposite prevenzioni, e si entra uno per volta; chiudono i negozi, l’economia italiana subisce un blocco. “Se solo avessimo provveduto prima ora non ci troveremmo in queste condizioni”, è un pensiero che pervade le menti e le bocche degli italiani ipocriti; non eravamo a conoscenza della gravità della situazione, perché non avevamo mai provato sulla nostra pelle una situazione del genere, eravamo abituati a sentirlo al telegiornale durante il pranzo, e a non dare neanche troppa importanza a ciò che stava accadendo nel resto del mondo, parliamoci chiaro. Finalmente però, ora, nel terrore e nella disperazione, tra le lacrime di chi ha perso anime a lui care, e tra i mille pensieri di chi deve pensare a come recuperare i ricavi economici bloccati, ci stiamo provando. Sono fonte di forza le parole della scrittrice statunitense Cassandra Clare: “Era stupido sperare. Ma a volte la speranza è l’unica cosa che hai”.