di Angela Maria Boccia-“Io sono viva per caso” afferma in un’intervista Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz. Tutto iniziò quando il padre le disse che era stata espulsa dalla scuola perché ebrea. Fu l’inizio della fine.
Aveva appena 13 anni quando fu costretta a salire insieme al padre sul treno, il treno della morte. Non aveva la minima idea di dove si dirigesse quel treno, nemmeno nessuna delle 605 persone che viaggiavano con loro.
Liliana in quel momento non capiva il perché si trovasse su quel treno, né perché fosse stata privata della sua libertà. Sul treno si trovavano persone perbene, nessun delinquente, la cui loro unica colpa era di essere ebrei: la loro colpa era di essere nati!
Sul treno c’erano cittadini italiani di religione ebraica, ragione per cui venivano buttati con violenza sul treno come se fossero bestie. Lì, sul treno, non c’era nulla, né cibo, né acqua. Si sentivano solo urla, pianti e tutta la disperazione di quel momento. Quelle persone non conoscevano la loro destinazione, ma l’avrebbero scoperta solo al momento dell’arrivo.
Liliana descrive quel viaggio sul treno “importantissimo” perché le fece capire che tutto, dopo quel viaggio, non sarebbe più stato come prima. Il viaggio durò una settimana, ma tutto ciò che ricorda fu solo alla fine un gran silenzio. Un silenzio che le permise di riflettere, ma soprattutto di sentire la vicinanza della morte: di quelle 605 persone deportate solo 22 tornarono indietro.
Arrivati a destinazione, si resero conto di essere arrivati nell’universo del male, non credeva ai suoi occhi, nessuno avrebbe mai potuto immaginare quello che sarebbe poi successo.
Auschwitz: stazione di non ritorno: “Fu un momento essenziale. La maggior parte di noi era condannata a morte all’arrivo. E a quel silenzio che io ho in così grande onore e che ricordo, importante dopo così tanti anni, all’arrivo subentrò il rumore osceno e assordante degli assassini intorno a noi, che aprirono i vagoni e ci buttarono, dinanzi agli occhi assuefatti al buio, la visione dell’inferno preparato a tavolino per noi da altri uomini. Era Auschwitz: era la stazione di non ritorno, binari morti, treni fine corsa, treni che ogni giorno sfornavano migliaia di persone che arrivavano da tutta l’Europa. C’erano persino vagoni fermi pronti per essere agganciati al treno successivo che così tornava indietro vuoto e un altro veniva vuotato. Fummo tirati giù da quel treno, gambe anchilosate, occhi che facevano fatica a capire non solo quello che ci stava intorno, ma anche a sopportare la luce di quel mattino grigiastro. 6 Febbraio 1944. Una spianata, uomini vestiti a righe, prigionieri con la testa rapata erano sferzati dai diavoli SS coi loro cani, per fare in fretta in fretta in fretta in fretta a radunare noi, sbalorditi, incretiniti dal viaggio, ubriachi…Radunarono le nostre valigie, divisero gli uomini dalle donne. Non sapevo che non avrei mai più rivisto il mio papà e continuo a sperare che anche lui non lo sapesse. Fummo divisi”.
Liliana venne scelta come operaia in una fabbrica. Veniva svegliata con una bastonata dopo aver dormito con altre 5 persone su giacigli immersi nella sporcizia. Si usciva al freddo per rispondere all’appello con addosso solo divise di cotone leggero.
Liliana non riuscì mai ad abituarsi alla vista di quegli orrori e ogni giorno rimaneva sempre più sbalordita di ciò che vedeva.
Questa è la testimonianza di una delle poche persone sopravvissute ad Auschwitz, a quelle torture, a quell’inferno. Una testimonianza importantissima che ci permette di ricordare quegli orrori affinché non si ripetano mai più. Una testimonianza che dovrà restare impressa nelle nostre menti, anche dopo la morte di ognuno di questi sopravvissuti, in modo tale che il loro sacrificio e la loro testimonianza non siano state vane.