“Libertà l’ho vista dormire nei campi coltivati (…) protetta da un filo spinato.” (F. De André, Il suonatore Jones)
di Colomba Pinto, 4ªD – “Libertà”: fa parte del personale bagaglio di esperienze di ognuno di noi, ma difficilmente riusciamo a darne una definizione, se non quando ci viene a mancare. Tuttavia, l’Intellettuale ha il dono — e l’impellenza, e la missione — di mettere a disposizione di ogni suo simile la propria concezione di questo valore, tanto importante per la definizione dell’essere umano. Dante, nel proemio dei tre libri del De Monarchia, scritti a suffragio della monarchia, scrisse: “(…) bisogna aver presente che il fondamento della nostra libertà è il libero arbitrio, che molti hanno sulla bocca, ma che pochi intendono: (…) libero arbitrio è libera valutazione della volontà”, e fin qui — dice— tutti c’arrivano; poi precisa: “(…) i bruti non possono avere il libero arbitrio, poiché le loro scelte sono sempre condizionate dalla brama.”. Forse è per questo che Luigi Pulci descriverà quale bruto Margutte, il mezzo-gigante del Morgante da lui inventato per dissacrare la figura dell’eroe, tipica del poema cavalleresco. Questo personaggio, ancorché colto (a dispetto delle apparenze) rifiuta di sottostare ad ogni imposizione e regola: per questo libertino, “libertà” vuol dire, infatti, far quel che gli pare e piace, a cominciare dal suo accrescimento. Libertà, dunque, non è quella dei bruti; al contrario, appartiene a coloro i quali hanno scelto di vivere seguendo “virtute e canoscenza”. Ma torniamo all’epoca dei tre padri della letteratura italiana: in particolare, consideriamo l’epistolario di Francesco Petrarca col tribuno Cola di Rienzo. Gli scambi epistolari, più o meno privati, sono sempre stati, senza dubbio, i documenti che più di ogni altro hanno permesso ai critici di ricostruire il cuore del pensiero degli intellettuali — soprattutto umanisti — che si ispiravano alla consuetudine, appartenente al mondo classico, della epistola per lasciare ai posteri (o anche ai contemporanei) tracce autobiografiche. In questo caso, quella di cui si parla è la libertà che il popolo espresse nella scelta di svincolarsi dal giogo straniero, per ritornare a quella libertas della quale quei discendenti degli antichi romani erano stato privati: la scelta, che oggi diremmo sovranista, di instaurare la repubblica nella capitale, grazie a Cola di Rienzo. In sostanza, è libero quel popolo che ha nelle proprie mani quella politica che corrisponde alle sue vere esigenze. Moltissimi intellettuali del Rinascimento vissero il dramma della subordinazione al potere dei Signori, ai quali dovevano sottostare per essere da loro mantenuti. Già a partire dal tardo Trecento, c’era stata una lenta emarginazione dei letterati che, mentre al tempo di Dante — nell’età dei Comuni — si sentivano investiti di una missione civile e politica, vengono ora, nelle corti signorili, ignorati nella loro funzione di intellettuali e impiegati per svolgere attività di tipo diplomatico o tutt’al più incaricati di comporre opere per il divertimento della corte (che saranno prevalentemente di carattere encomiastico, perché l’intellettuale deve pur nutrirsi e procurarsi di che vivere). È in questo clima che vivono uomini come Ludovico Ariosto; il suo pensiero si può sintetizzare così: l’uomo può restare padrone di se stesso — seppur mantenuto alla corte di un Signore — solo eliminando i desideri smodati. Quando Ariosto lascia bruscamente il servizio a seguito del cardinale Ippolito d’Este per assumere l’incarico di governatore in Garfagnana, dichiara, in quello che è stato definito un “diario in pubblico”, il suo amore per la libertà. Ariosto è una persona come noi: ama la vita, la letteratura, ma per guadagnarsi da vivere deve pur dipendere da un mecenate. Così come Orazio aveva ricevuto in regalo dal suo amico Mecenate una villa in cui coltivare il suo otium, accontentandosi, per vivere, dello stretto necessario (secondo gli insegnamenti della filosofia epicurea) anche Ariosto ci parla, attraverso la Satira I, della sua scelta di vita: una rivendicazione di indipendenza, nata dall’occasione di scrivere al fratello Alessandro e all’amico Ludovico della sua nuova sistemazione come dipendente del duca Alfonso I d’Este, per denunciare, con amarezza ed ironia, l’ipocrisia dei cortigiani, a Ferrara, contrapponendola alla sua scelta di libertà: il Nostro si ritiene libero di non accettare più dal Cardinale incarichi poco dignitosi per un intellettuale; ed è disposto ad accettare di buon grado la povertà, rinunciando ad ogni beneficio, pur di recuperare, per l’appunto, la propria libertà; e per rafforzare la sua accusa verso il Signore di non elargire riconoscimenti economici al lavoro del letterato riferisce anche la risposta del Cardinale: i suoi versi li mandi pure “(…) al Culiseo per lo suggello” (!). Questo dimostra quanto volgare sia un uomo che non apprezza le lettere, e dà la misura del valore che costui attribuisce alle doti letterarie di Ludovico, ritenute poco meritevoli di un congruo compenso. L’assunto che la libertà sta nella piena espressione dell’Intellettuale si trova in piena sintonia con la cultura umanistica. Nella seconda metà del Cinquecento, sempre presso la corte del duca d’Este, Torquato Tasso prestò la sua opera nei primordi della Controriforma cattolica, che mise sotto controllo la produzione artistica, intimidendo gli intellettuali con il famigerato Tribunale della Santa Inquisizione e con la minaccia di mettere le loro opere all’Indice dei Libri Proibiti; questo fece in modo che gli intellettuali si autocensurassero, conformandosi ai dettami dell’ordine restaurato e trattando esclusivamente temi religiosi, utili alla funzione educativa modellata sui valori cristiani e di propaganda della Restaurazione. Insomma, l’intellettuale perde la libertà di trattare temi — come l’amore sensuale — tipicamente rinascimentali; e abbandona anche gli auctores classici greci e latini, fino ad allora presi a modello di perfezione stilistica e libertà di pensiero filosofico. Torquato Tasso, nel Proemio della Gerusalemme liberata, trovava lo stesso il modo di parafrasare Lucrezio — il filosofo epicureo che scelse di addolcire la medicina amara della fisica nel miele dei suoi versi poetici per farla assumere al popolo romano — che nel “De rerum natura” scrive la sua verità filosofica sulla libertà: “A questo proposito voglio che tu sappia anche che, quando i corpi cadono diritti attraverso il vuoto per il loro peso, in qualche tempo e luogo non definiti deviano per un poco, tanto che appena può dirsi modificato il loro percorso”. Questo per dire che Lucrezio concepisce la libertà in quanto deviazione appena percettibile da un percorso predefinito: quello che noi, intrisi di cultura cattolica, chiamiamo libero arbitrio ovvero la facoltà di scegliere di fare il bene o il male. Continuando a parlare di autori latini messi al bando dalla Controriforma, ricordiamo Catullo, le cui poesie, ancora oggi, vengono censurate dagli autori dei nostri libri di testo perché considerate troppo audaci. Il Poeta veronese, proprio per la licenziosità dei suoi versi e l’asprezza delle sue invettive, può essere considerato il primo poeta veramente libero. Un altro letterato soggetto alla censura, fino al ritrovamento della sua opera nel 1821 da parte di un cardinale, fu Cicerone; anche se, in realtà, a differenza di molti altri autori suoi contemporanei, non fu mai soggetto alla “damnatio memoriae”; una sola opera, il De Re Publica, fu inserita dalla Chiesa nell’Indice dei libri proibiti, perché l’autore parlò di motore primo non chiamandolo mai “Dio”. Dell’opera, per ricollegarci al tema della libertà, una frase, in particolare, spicca: “La libertà non consiste nell’avere un padrone giusto, ma nel non averne alcuno”. Una definizione di libertà, questa, che ben si addice anche alla nostra epoca.Libertà (…), ch’è sì cara…
di Major@naPress - SESSA AURUNCA (CE)|
2022-02-20T16:48:00+01:00
20-2-2022 16:35|Alboscuole|0 Commenti