Siamo costantemente condizionati da circostanze, situazioni, fattori esterni indipendenti dal nostro controllo che, in un modo o nell’altro, ci portano ad agire secondo determinati schemi.
Siamo condizionati dalla società in cui viviamo, che ci impone degli standard nei quali ci sentiamo quasi costretti a rientrare per ritenerci socialmente accettabili, spesso lasciando da parte chi realmente siamo per coltivare l’immagine di noi stessi che al mondo piacerebbe osservare.
Si parla di “tirannia dei dovrei” per indicare quella serie di credenze che interiorizziamo dall’ambiente (malsano) nel quale cresciamo e ci convincono che solo obbedendo ad esse riusciremo, come per magia, a controllare il mondo che ci circonda e, di conseguenza, il nostro destino, candidandoci così ad una vita costellata di successi e felicità. Eppure, proprio riconcorrere uno stato di benessere e appagamento diventa spesso il più potente antidoto contro la felicità. Ci rende schiavi delle aspettative che noi stessi costruiamo sul nostro futuro o che gli altri riflettono su di noi.
Sentiamo a tal punto l’esigenza di mostrarci felici che stiamo pian piano dimenticando come si fa ad essere tristi e rendendoci incapaci di accettare la tristezza come una delle conseguenze naturali dello stare al mondo.
Diventiamo quindi schiavi della felicità. Ci riempiamo la vita di cose da fare, al solo di fine di non pensare a tutto ciò che ci rende tristi, alla noia, alle domande per cui non abbiamo una risposta, al senso della vita, alle nostre paure più grandi. Il divertissement di Pascal è, oggi come oggi, la nostra principale occupazione.
Tentiamo di fuggire da noi stessi e ci rifugiamo nei passatempi che ci distraggono dai nostri problemi, come le conversazioni con gli amici, i giochi, i social, pur sapendo che tutto ciò non ci condurrà alla felicità. Senza il divertimento, tuttavia, saremmo costretti a prendere di petto l’angoscia, la noia e tutte quelle emozioni che etichettiamo come negative, forzandoci a cercare una via d’uscita reale a questo labirinto, soluzione assai meno piacevole rispetto alla leggerezza del divertimento.
Se è vero che i detti popolari celano sempre un fondo di verità, la serenità è inversamente proporzionale alla consapevolezza che abbiamo della realtà che ci circonda.
L’ignoranza della reale condizione di schiavitù nella quale ci troviamo ci permette senza dubbio di vivere una vita più serena e spensierata. Si pensi al famoso mito della caverna di Platone. Il prigioniero, rinchiuso in una cava, non si rende conto di possedere una conoscenza limitata della realtà finché non entra in contatto con il mondo esterno. Solo allora comprende di aver vissuto, fino a quel momento, in una realtà illusoria. I suoi compagni, invece, ignari della propria condizione, non percepiscono come una limitazione le catene che li costringono nella caverna e faticano a comprendere la sensazionale scoperta del prigioniero che è stato in grado di liberarsi. Chi non comprende il mondo che lo circonda, infatti, è spesso ostile verso qualunque forma di avvicinamento alla verità, che intaccherebbe inevitabilmente la sua spensieratezza.
Per un esempio di più recente si pensi al film Room, un lungometraggio di genere drammatico che racconta il rapimento di una ragazza, costretta a vivere per anni in una stanza, senza avere nessun contatto con l’esterno se non con il suo rapitore, dal quale avrà un figlio.
Se pe la madre quella stanza rappresenta una prigione dalla quale desidera scappare, per il bambino, inconsapevole della libertà di cui è stato privato, quelle quattro mura rappresentano i confini del mondo da lui conosciuto, al quale si sente fortemente affezionato.
Questi semplici esempi aiutano a comprendere come vivere in catene non sia sinonimo di schiavitù, se non si è sperimentata la libertà. Se tutti nascessimo dietro le sbarre, ignari del mondo che si cela al di fuori di esse, allora identificheremmo il nostro stile di vita come l’unico possibile e non potremmo per questo sentirci in gabbia.
È questo un invito a vivere in una bolla di sapone, non curanti della realtà che ci circonda? Certo che no. Ignorando la propria infelicità costitutiva, infatti, secondo Pascal “non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad essere felici, è inevitabile che non siamo mai tali”.
Come si fa, quindi, ad essere felici? Non esiste una risposta univoca a questa domanda.
Molti di noi associano il concetto di felicità ad un’ideale di libertà, di conseguenza l’unico modo per essere felici è liberarsi dei condizionamenti esterni che ci rendono schiavi del nostro tempo.
La pensava così Karl Marx, quando scriveva della rivoluzione proletaria come dell’unico mezzo per la riaffermazione di una sorta di giustizia sociale.
Il proletario, alle dipendenza del capitalista, è schiavo di quei meccanismi che lo costringono ad un lavoro monotono, ripetitivo, forzato, alla produzione di beni di cui non potrà usufruire, di una ricchezza che non sarà ripartita equamente, e il capitalista, lucrando sullo sfruttamento dei suoi dipendenti, appare come l’unico vincitore.
Se osservassimo però il fenomeno da un altro punto di vista, quello del capitalista, ci renderemmo conto che anche colui che la storia descrive come un vincitore e un oppressore è schiavo di quei meccanismi di cui egli stesso si fa portavoce.
Il capitalista è infatti schiavo del proprio guadagno, in quanto non può fare a meno di desiderarne sempre di più, e dei suoi dipendenti, senza i quali non potrebbe realizzare i propri prodotti.
L’oppressore è allo stesso tempo, senza che se ne renda conto, anche un oppresso e viceversa.
La difficoltà sta quindi proprio in questo: liberarsi di quelle forme di schiavitù che spesso confondiamo come le nostre più grandi conquiste.
Per essere realmente felici, secondo gli antichi greci, bisogna aspirare a raggiungere un tale livello di atarassia e imperturbabilità che ci renda in grado di dominare le nostre passoni e contemplare il mondo senza subirne le pressioni.
È una prospettiva che incute quasi timore, in quanto presuppone un distacco totale dalla realtà, ma è fondamentale non confondere l’atarassia con l’apatia, intesa nel senso più moderno del termine.
Se l’apatia è, per definizione, l’incapacità di partecipazione o di interesse, sul piano affettivo o intellettivo, l’atarassia presuppone invece un “interesse consapevole” nei riguardi del mondo, un tale livello di pace interiore che non ci faccia desiderare niente di diverso da ciò che abbiamo.
Qualcuno potrebbe pensare che questa sia la via per una sorta di felicità passiva, fondata sull’accettazione della propria condizione, che non prevede la possibilità di modificarla.
Se è vero che determinate forme di schiavitù sono indipendenti dal nostro controllo e bisogna quindi imparare a riconoscerle come tali, senza dispendere le nostre energie in una vana lotta contro i mulini a vento, altre forme di condizionamenti esterni sono semplicemente una scusa per restare nei limiti della nostra comfort zone e rimandare a data da destinarsi l’appuntamento con la felicità.
Spesso si addita la società come responsabile della nostra infelicità, identificandola con un fattore esterno e dimenticandoci che invece a formarla siamo proprio noi.
La massa e il conformismo sono le più grandi forme di schiavitù cui siamo sottomessi, ma che fatichiamo a riconoscere come tali. Se qualcosa diventa normale per un gruppo, la pressione sociale garantirà il conformismo e liberarsi dalla sua morsa non è affatto semplice. Tuttavia, c’è ancora speranza per l’umanità, in quanto numerosi esperimenti psicologici, pur confermando il potere delle masse, hanno allo stesso tempo riconosciuto il potenziale di una minoranza dissenziente, seppur esigua.
È quindi fondamentale trovare il coraggio per cambiare le situazioni che non riteniamo giuste e tentare di conquistare così la nostra felicità, senza perdere però di vista le piccole conquiste di cui saremo protagonisti durante il percorso.
In conclusione, la felicità è una condizione estremamente difficile da raggiungere, ma iniziare ad apprezzare ciò che abbiamo anziché rimpiangere ciò che ci manca potrebbe essere un ottimo punto di partenza.
Se possiamo trarre un insegnamento dalla difficile situazione che stiamo vivendo, infatti, questo è proprio l’importanza di riscoprire il valore delle che cose che fino a questo momento abbiamo dato per scontate.
Renderci conto che le piccole cose non sono poi così piccole, ma rappresentano anzi gli incentivi necessari per superare gli ostacoli che ci separano dalla nostra felicità.