Le aspre vedute siciliane ed i rustici paesaggi fanno da cornice ad una realtà culturale, impropriamente trapiantata in un contesto temporale con il quale non condivide assolutamente nulla. |
La Sicilia si presenta, infatti, come un mondo anacronistico, totalmente estraneo a quell’intreccio di innovazioni ed ineluttabili cambiamenti che sarebbe passato alla storia col nome di “seconda rivoluzione industriale”. Il disagio di cui fanno esperienza gli isolani nell’affrontare il divario socio-culturale con il centro e nord Italia è fedelmente espresso da Giovanni Verga, osservatore scrupoloso del vero e redattore del “gran libro del cuore”. Il letterato, nella prefazione a “L’amante di Gramigna”, ha modo di presentare all’amico Salvatore Farina quelle che sono le linee guida, formali e stilistiche, per l’elaborazione del “documento umano”, definizione naturalista della testimonianza letteraria della realtà. |
La prima questione da esaminare è quella linguistica: il ruolo guida della narrazione popolare è caratterizzato dall’uso di terminologie volgari, del dialetto lessicale, talvolta elaborato in un italiano maccheronico che, pur non stroncando i legami con la sintassi originaria, permette la comprensione del testo da parte dei diversi fruitori. |
Caratteristica della poetica naturalista e verista è la scelta di riportare gli avvenimenti drammatici in modo apparentemente freddo e disinteressato, sancendo un evidente distacco con “il modo di raccontare” romantico, per il quale era fondamentale l’enfasi della tragedia. L’approccio di Verga e colleghi veristi non è, però, un tentativo di sminuire tali eventi: essi semplicemente perdono di intensità nella confusione delle voci popolari. Sta poi al lettore ricavare la tesi dell’accaduto. |
Come già accennato, l’unica guida a cui si può far riferimento al momento della lettura è il popolo, che con la sua moltitudine di volti non fornisce un modello composto di eticità, né tantomeno permette al fruitore dell’opera verista di distinguere all’impronta ciò che è giusto da ciò che non lo è, essendo questi soggetto ad una sensazione di smarrimento o, per meglio dire, di straniamento. |
Ci si trova, dunque, coinvolti in una tempesta di sentimenti, pregiudizi e passioni, quelle realtà metafisiche, il cui esame è posto come fine ultimo della ricerca poetica di Verga, percorso lungo, introspettivo e di sicuro non perfetto: è compito dell’autore, infatti, tendere il più possibile alla perfezione contenutistica, autentica solo nella rappresentazione fotografica di una verità da sempre inquinata dalla intromissione illegittima del narratore giudicante. |
Una volta eliminate le impurità della soggettività di quest’ultimo, sarà possibile leggere un romanzo fatto da sé, veritiero, che, come un frutto, nasce e cresce nell’humus culturale al quale sarà sempre legato, nel bene e nel male. |
Proprio da questa metafora è possibile ricavare la tesi alla base del fatalismo pessimistico di Verga, ampiamente esplicato nelle righe dei due romanzi del ciclo de “I vinti”: “I Malavoglia” e “Mastro don Gesualdo”. Mentre in Francia Emile Zola riportava con rigore giornalistico le vicende dei dannati Rougon-Maquart, tra i quali il gene della follia imperversava inarrestabile, nelle vicende siciliane la causa del disastro, verso cui i due capostipiti Padron N’Toni e Gesualdo avanzavano ignari, non è da ricercarsi in un fattore psicologico quanto in un impedimento al di sopra della loro volontà; l’impossibilità di poter progredire nella società o, più semplicemente, di aspirare ad un futuro migliore, per sé stessi e la propria famiglia, è ovvia conseguenza dell’inevitabile immobilismo sociale, condizione che vanifica ogni sforzo umano. |
Nella prospettiva di un’emancipazione, soltanto e tristemente utopica, Verga paragona l’uomo ad un’ostrica, mollusco che, se separato dallo scoglio sul quale è nato, cresciuto e dal quale dipende, va incontro ad una morte certa, corporale o psicologica che sia. |
di Giulio Armando Palmieri – 5^C –