In questi giorni, l’Italia è stata quasi “accusata” di aver parteggiato al rimpatrio della figlia dell’ex dirigente dell’ambasciata nordcoreana a Roma, Jo Song-gil . Costui, dopo aver lavorato a lungo nell’ambasciata italiana, si sarebbe misteriosamente nascosto dal regime del dittatore nordcoreano e ora vivrebbe sotto protezione, chissà dove. Proprio dopo la sua sparizione sarebbe avvenuto il rimpatrio (che molti giudicano “forzato”) della sua figlia diciassettenne, la quale sarebbe ritornata dai nonni felicemente, senza alcun rimpatrio “forzato”.
Ma perché si parla di un ritorno in Corea del Nord “forzato”? Per il semplice fatto che, per il regime dittatoriale di Kim Jong Un, la scomparsa senza preavviso di Jo, avvenuta nel novembre scorso, potrebbe tranquillamente essere punita per tradimento. Si pensa, perciò, ad un rimpatrio “punitivo” delle ragazza nordcoreana, adoperato dal regime.
Verrebbe automatico chiedersi: ”In tutto questo, cosa c’entra l’Italia?”
Ebbene sì, sembrerebbe che la nostra Nazione sia stata informata il 5 dicembre scorso che la ragazza diciassettenne sarebbe tornata in Patria dai nonni. Il nostro Ministero degli Esteri sarebbe stato informato proprio dalle autorità nordcoreane. L’Italia, giustamente, sta cercando di indagare sul caso dato che l’ambasciata dove lavorava il padre della ragazza era proprio quella di Roma ma, colpo di scena, anche su questo ci sono polemiche: alcuni dei nostri partiti hanno chiesto ulteriori indagini. In particolare, si sono rivolti direttamente al Ministro dell’Interno Salvini chiedendogli di presentare l’intera vicenda nell’Aula di Montecitorio. Per il momento, però, il tutto rimane ancora avvolto nel mistero.
Fonte: Corriere della Sera del 21 febbraio 2019
Giuseppe Varlaro, III C