Di Francesco di Palma – classe III sez. H
Ricordo la mia infanzia in campagna con la mia famiglia, in un mondo diverso, ma, direi, parallelo a quello di città.
I clacson delle auto, il brusio dei passanti, tipici di un mattino in movimento, erano svaniti sostituiti dal flebile cinguettio di qualche uccello, spesso accompagnato da altri versi brillanti, tanto che sembrava di essere di fronte ad un’orchestra in pieno Allegro.
La natura dominava incontrastata su qualsiasi spazio visibile: poderosi alberi, i cui fusti parevano colonne portanti di templi greci e le chiome folte come fiamme verdi, la cui prominenza sfidava il cielo.
Mi meravigliavo di tutto ciò che celava anche una piccola foglia. In particolare, mi stupiva un nocciolo verdissimo, che di stagioni ne aveva vissute parecchie e i suoi frutti erano un divertimento per me e mio fratello, un divertimento per ciò che nascondevano.
Per chi non lo sapesse, infatti, la nocciola è chiusa in uno scrigno: esso è aderente e pare un fiore di un verde smeraldo, al tatto viscoso.
Così quell’albero stupiva me e mio fratello: era singolare e con il suo piccolo tronco sottile s’apriva come un ventaglio, pareva inverosimile che lo stesso pochi mesi prima era come una madre senza figlio, vuoto, raso, con le braccia formate dai rami anch’essi quasi senza spessore, che sembravano implorare il cielo per una disgrazia imminente.
Poco più avanti vi era uno spazio vuoto, veramente ampio, circondato da tanti alberi da frutto. Pere, mele, prugne e nespole, albicocche mature sembravano prostrarsi a terra, di fronte a quell’enorme fusto contorto nella forma, che la natura aveva donato ad un ciliegio, le cui foglie bianchissime dominavano l’occhio di qualsiasi essere vivente passante per quelle zone, perché unico nella sua bellezza e diversità. Il ciliegio era come un re, che sedeva fiero sul suo trono, un re generoso, docile col suo reame, che donava i propri tesori ai sudditi. I frutti acerbi parevano principi neonati, figli di un padrone paziente con i servi, che lo ammiravano dal basso, ma proprio nel basso si nascondevano i tesori che più mi intrigavano: le erbe selvatiche, che crescevano spontaneamente.
Sul terreno friabile, infatti, cresceva la gramigna considerata una maledizione per i contadini, che si faceva strada, competitiva e irraggiungibile in un mondo insospettabile.
Le formiche, poi, camminavano silenziosamente sulle orme lasciate dall’uomo e dagli altri animali, portando con sé sei volte il peso del proprio corpo, lottando con gli altri insetti per la sopravvivenza, radunandosi di fronte a minuscole cavità, che un occhio attento ben facilmente riesce a scorgere nella friabile terra. Ebbene, questi insetti, le formiche, si arrampicavano su un vistoso salice, con i rami curvi, verso terra.
L’albero emanava un odore singolare, veramente forte, singolari le sue bacche, ma ancor più singolare era il fiore, con cui questo colosso soleva ornarsi, di un rosso fuoco, quasi simile alla ruggine, e si presentava col centro nero, ancor a rimarcare con un contrasto deciso la propria fulgidezza.
Il salice era un gigante verde con la chioma adorna di migliaia di puntini rossi, buono, potrei asserire anche ch’era docile, come un animale domestico.
Su questo albero mi piaceva arrampicarmi d’estate, mi piaceva toccare il rugoso fusto centenario, mentre assaggiavo le nespole appena raccolte. Su quest’ albero un giorno ho sognato ingenuamente di costruirci una casa, quando dal basso ammiravo la sua folta chioma.
È stato il mio compagno mai avuto. Quando guardavo le nuvole, lui mi ha riparato con la sua maestosità dal caldo torrido durante le estati più bollenti. Ho dormito sotto le sue radici dopo aver trascorso agosto ad osservare le stelle. Ho composto poesie in suo onore, perché era un’ispirazione. Lo è anche adesso, quando con un paio di tasti sto portando alla luce un ricordo lontano.
Sì, perché adesso il vecchio salice, quello che per anni ha riparato un ecosistema, non esiste più: è un muro di pietra grigio. I pini, quelli che sembravano colonne del Partenone, sono rispettivamente un ristorante in crisi e un Mc Donald ’s. La terra, friabile e segno di vita, è un anonimo asfalto e le formiche, quelle che vivevano nelle fosse, vengono calpestate dalle auto del nuovo parcheggio. Il ciliegio dello spiazzale è un palo della luce, che funziona ad intermittenza, doveva essere sistemato da anni, ma per ora vigono solo promesse. Il nocciolo ormai è morto: ha preferito sparire per sempre piuttosto che rimanere in balia di un capriccio dell’uomo, lasciando in un paio di metri quadri di erba secca, lo scheletro di una vita intoccabile, che ormai sta scomparendo, ferita dall’irresponsabilità umana.