Gabriella Carone – E’ passato alla storia come il giudice ragazzino. Rosario Livatino aveva trentotto anni, è morto per mano di quattro killer per ordine della Stidda, lungo la statale che ogni mattina percorreva per andare ad Agrigento.
Quando lo fecero sbandare Livatino uscì dall’auto, cercando salvezza e fuggendo per i campi, ma lo uccisero con un colpo di pistola alle spalle.
Io penso che la fede abbia cambiato Livatino, come cambia ognuno di noi; la fede “vivifica” fa compagnia all’uomo, lo rende concretamente capace di ciò che non sarebbe in suo potere: la vera umiltà.
Di solito, chi ha un potere, ne sottolinea la centralità; Livatino, invece, ne segnalava i limiti: “la giustizia è necessaria, ma non sufficiente”.
Io ammiro molto il giudice perché, così come lui diceva, un giudice è un uomo, al quale non si chiede di essere una persona severa, o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, si, responsabile, ma comprensiva e umana, capace di condannare, ma anche di capire.
Un’altra cosa che mi ha colpito molto di Livatino è il fatto che lui scriveva ogni cosa che gli succedeva, appuntava tutto su una agendina, scriveva sempre STD, sub tutela dei, o sotto lo sguardo di Dio.
E’ bello sapere che Rosario, con Dio dialogava sempre, e sapeva di essere guardato.
Nella sua agenda, scriveva anche tutti i suoi innamoramenti, che descriveva con parole estremamente delicate; a volte, però, c’erano esiti infelici provocando in lui un senso di malinconia e solitudine,
Rosario Livatino, anche se giovane è stato un grande giudice, ma soprattutto un grande uomo.