di Di Donato, Lettieri e Razzino – Piedimonte Matese è una città della provincia di Caserta in Campania molto nota per un’architettura religiosa di origine tardo gotica: la Chiesa di San Biagio, monumento nazionale dal 1926.
La struttura architettonica è quasi regolare,
a pianta rettangolare (dieci metri per cinque metri circa ), con orientamento Sud Est – Nord Ovest.
La facciata presenta un portale con conci in pietra calcarea sormontato da una lunetta ogivale, originariamente affrescata, che ingloba un ex voto maiolicato raffigurante il santo titolare.
Poco sopra la cuspide della lunetta, un oculo circolare illumina l’interno, suddiviso in due campate quadrangolari voltate a crociera.
Nell’angolo della parete settentrionale della campata d’altare è un accesso ad un vano quadrangolare
(due metri e venti per due metri circa) con probabili funzioni di sacrestia.
Sulla stessa parete, in alto, una “ lancetta ” strombata, poi tamponata, dava luce all’altare.
Forse tra la fine del secolo diciottesimo e la prima metà dell’Ottocento gli affreschi furono in parte ricoperti da intonaci, manifestando un progressivo degrado già segnalato nel mille novecento dodici. Nonostante le ripetute richieste d’interventi susseguitesi dal mille novecento diciassette in poi, la prima radicale operazione di restauro – che in origine prevedeva il distacco totale – fu intrapresa solo tra il millenovecento sessanta due ed il mille novecento sessanta tre, un successivo intervento di consolidamento degli intonaci e di restauro delle pitture è stato condotto tra il 2004 e il 2005.
La totale mancanza di documentazione archivistica sulla sua fondazione, a causa del depauperamento dell’archivio parrocchiale e della distruzione dell’archivio diocesano, non permette di formulare delle proposte cronologiche precise.
Quelle avanzate scaturiscono da fattori storici contingenti e soprattutto dall’analisi stilistica delle pitture stesse oltre che da pittorici analoghi meglio documentati.
Tuttavia, una cedola di obbligazione del mille quattrocento settanta otto – che ha restituito il nome di un mercante piedimontese, Nicolò di Giacobuccio (de Jacobutiis) – e un documento del mille quattrocento novantuno , nel quale si fa esplicita menzione di una corporazione di artigiani piedimontesi che erano dediti alla produzione dei panni lana, offrono la possibilità di avanzare l’ipotesi della committenza della famiglia de Jacobutiis sia per l’edificazione della chiesa di San Biagio, sia per la realizzazione del ciclo pittorico del secondo lustro del quarto decennio del secolo quindicesimo.
Tale famiglia – che nella tradizione locale risulta fondatrice della cappella – già da qualche anno prima della costituzione della corporazione potrebbe aver raggiunto un prestigio economico tale da voler nobilitare la propria storia con la realizzazione della struttura architettonica, dedicandola al santo venerato come patrono dei cardatori e dei produttori di panni di lana.
La duplice intitolazione della chiesa detta “ Annunziatella ” – come appare in un protocollo notarile del mille quattrocento novanta – era connessa alla presenza di un piccolo ospedale annesso alla struttura con lo scopo di prestare cure ai consociati e ai loro familiari, e al quale si accedeva attraverso un’apertura posta sulla parete settentrionale, di cui sono rimasti i conci lapidei dell’imposta della porta.
IL SUBSTRATO CULTURALE DEL CICLO PITTORICO
Nella prima metà del ‘400 la “Terra di Piedimonte” fu un importante centro d’irradiazione della cultura tardogotica: la presenza di una feudalità di alto rango, i Caetani, detentori di un importante ‘ufficio’ del Regno, e di mercanti itineranti dovette essere basilare per l’istituzione pittorica giottesca e martiniana, si erano innestati alcuni elementi della cultura ‘internazionale’. Al pari della struttura architettonica, anche l’impianto decorativo della chiesa è abbastanza regolare e uniforme, strutturato in modo tale che ogni porzione della superficie muraria fosse decorata. Il substrato degli affreschi appare incentrato soprattutto su alcuni aspetti della cultura pittorica umbro-marchigiana e per la sua ricostruzione occupa una posizione di fondamentale importanza l’affresco dell’absidiola della cappella Savarese nella chiesa di Monteoliveto a Napoli: esso, infatti, rappresenta l’unico caso nella capitale del regno, giunto sino a noi, dell’irradiazione del lessico dei fratelli Salimbeni e lascia trasparire tutto il sedimento culturale marchigiano del suo esecutore, di origini campane, formatosi, probabilmente, nella cerchia salimbeniana o, forse, nell’alveo culturale della “scuola della costa” nella quale primeggiarono Pietro di Domenico da Montepulciano ed il suo collaboratore Giacomo di Nicola da Recanati, nel momento in cui erano impegnati nel cantiere dell’Oratorio di S. Monica a Fermo (AP). La commistione tra diverse esperienze culturali – una centro-italiana, l’altra locale – evidente nell’affresco olivetano, potrebbe riferirsi al momento in cui l’artista campano, di ritorno dall’esperienza centro-italiana, prima della sua attività nell’alto casertano, avrebbe innestato sulla cultura campana della sua prima formazione gli stilemi artistici recepiti durante il suo viaggio. Il pittore, forse incapace di riproporre i modi più raffinati di Pietro di Domenico, apparirà più dipendente da Giacomo di Nicola, di cui rappresenterà un vero e proprio “corrispettivo campano”. Le similitudini tra il ciclo matesino e quello fermano non superano, però, l’ambito strettamente tipologico e strutturale. Già nell’aspetto compositivo le differenze sostanziali appaiono, soprattutto, nella diversa resa spaziale: mentre a Fermo la presenza di Pietro Domenico garantisce la definizione di una composizione più “ariosa”, grazie alla conoscenza di Gentile da Fabriano per il tramite di Arcangelo di Cola, la maestranza che opera a Piedimonte non riesce a definire spazialmente le scene, tanto che i personaggi appaiono quasi “soffocati”, avvolti in senso quasi centrifugo dalle architetture e dai paesaggi. Il recupero di alcune tipologie, soluzioni figurative ed ornamentali salimbeniane appaiono evidenti, in particolar modo, nelle scene dell’Infanzia di Cristo, rappresentate tra la volta e le pareti della campata d’ingresso, epitomate da alcuni passi dei Vangeli Apocrifi.