di JASMINE RBOH –
Voglio spogliarmi di ogni insicurezza, piano piano. Non nascondo che, mentre raccontavo di me sulla pagina vuota, ho eliminato la bozza, l’ho riscritta e ancora due o tre volte l’ho cancellata.
E’ strano: non so da dove iniziare – eppure di solito sono tanto chiacchierona e in teoria ho sempre la battuta pronta.
Adesso no. Di sottofondo ho lasciato un disco dei Negramaro: sono in cerca di un punto di partenza per scrivere di me, forse perché ho veramente tanto da raccontare.
Ciò che è ironico in questa situazione è che il mio carattere è così… stravagante, espansivo, socievole. Per cui, quando incontro una persona del tutto nuova e che a pelle mi piace, se abbiamo mezz’ora di tempo da passare insieme, potrei raccontarle gran parte della mia vita.
Ora che mi ritrovo a scrivere, invece, mi sento come se avessi il freno a mano tirato, perché filtro tutte le mie parole attraverso il pensiero e la riflessione, forse per la prima volta. E’ una situazione molto diversa rispetto a quella cui sono abituata. Ho scelto, così, di auto-intervistarmi. So che è esattamente come parlare da sola; d’altronde, non nascondo che nei momenti di solitudine mi capita. E poi tutti noi dovremmo fare un percorso simile, che è come sottoporsi ad una sorta di esame di coscienza o come tracciare un breve bilancio della nostra vita.
Bene: iniziamo.
Chi sei a primo impatto?
Ho diciott’anni, sono nata a Savona, ma le mie origini sono marocchine; ho una gatta, Sibilla, e sono figlia unica. Sono all’ultimo anno del liceo.
Ti piace essere figlia unica?
In effetti, non sono stata l’unico tentativo, ma sarei quello riuscito, perché mia mamma ha avuto cinque aborti spontanei. Se mi piace? Sì e no.
Sì, perché l’attenzione è sempre stata puntata su di me, fin da quando ero piccola.
No, perché avrei tanto voluto un fratello maggiore cui appoggiarmi o una sorella cui rubare i vestiti – dei compagni di infanzia. Mi ricordo che a quattro anni mi immaginavo un fratello o una sorella e passavo pomeriggi interi a fantasticarci sopra.
Invece, parlando di scuola?
Ci pensavo l’altro giorno: ho alle spalle una carriera scolastica di ben tredici anni, se contiamo l’asilo arrivo a sedici – niente male, in effetti…
Comunque, sono sempre stata una portatrice sana di allegria: fin da piccola non stavo mai ferma. Prova lo è quel che mi è successo in prima elementare: ero entrata a cinque anni e mezzo, invece che a sei, e in classe “svolazzavo” di qua e di là, dicendo che sarei diventata una modella.
Poi, mi sono calmata in seconda. Alle medie è stato un po’ diverso: un inizio un po’ burrascoso.
Burrascoso in che senso?
Ho conosciuto per la prima volta a undici anni ciò che voleva dire la parola “bullismo”.Ero la più piccola della classe, ero colorata o come canta Edoardo Vianello aaa abbronzatissima, dunque diversa. Oggi che ci ripenso, sarò stata anche una delle poche alle quali era stato insegnato il valore dell’educazione.
E’ stato bruttissimo: io col mio carattere spigliato ho tentato in ogni modo di farmi accettare e loro, con molta schiettezza, continuavano a dirmi che non ero la benvenuta – il perché è già stato detto.
Ricordo anche la giacca che mi hanno tagliuzzato in brandelli o la pesca che hanno messo a marcire nel mio zaino; ricordo anche gli sgambetti e le ginocchia sbucciate; ricordo gli intervalli passati a piangere.
E poi?
Nulla. Quell’anno è andata così. Io ero comunque piccola e indifesa e non sapevo proprio rispondere a tali brutalità; sono riusciti ad ammutolirmi, ed è stato ancor più terribile per me che sono sempre stata una gran parlatrice. Mi facevo venire a prendere per i più stravaganti motivi: male alla testa, alla pancia, a tutto. Alla fine, non riuscivo più ad andare a scuola.
Mia mamma mi ha salvato. Se n’è accorta ed è piombata in presidenza il giorno dopo.
Ma i professori in tutto ciò non si sono accorti di nulla?
Forse, ma non hanno detto mai una parola. Tutto accadeva sotto i loro occhi, ma nessuno ha mosso un dito. Devo tanto ad uno solo di loro, uno solo. Ma era uno su dieci.
C’è un lieto fine in fondo a questa storia?
Certo. A giugno di quell’anno è successo qualcosa di inaspettato, ma bellissimo. Mi hanno bocciato, così come aveva chiesto espressamente mia mamma. Eppure non c’è mai stata notizia più bella. Dall’anno dopo sono rinata, totalmente, come una fenice.
Basta cose tristi: raccontami un tuo pregio e un tuo difetto.
Prenderò in esame solo il mio carattere. Esso è il mio pregio e il mio difetto.
Pregio perché sono naturale, spontanea, empatica.
Difetto perché mi affeziono in fretta e ci rimango male, quando vengo ripagata con falsità o negligenza. Ho la cattiva abitudine di cercare sempre il buono nelle persone, anche quando non c’è. Ho imparato solo negli ultimi tempi che al mondo c’è anche gente cattiva grazie alle batoste che mi hanno forgiata. Sto comunque lavorando sul mio carattere.
Sei musulmana: cosa implica la tua religione nella tua quotidianità?
Questa auto-intervista sta prendendo una bella piega. Parto dalla questione principale: io credo in Dio. Sì, ho usato la parola Dio, che nel Corano è traducibile con Allah.Penso che le cose stiano proprio così: è solo questione di conoscere i sinonimi e di saperli usare.
Gran parte delle mie idee è sicuramente influenzata dalla nazione dove sono nata, l’Italia. E poi devo ringraziare i miei genitori per avermi resa quella che sono – soprattutto per avermi insegnato ad avere una mentalità aperta. Mi sento un risultato ben riuscito di unione multietnica? Modestamente sì.
Oggi l’Islam è sinonimo di terrore? Forse. Ma, se è percepito in questi termini, è solo per l’arretratezza mentale di alcuni pseudo-fedeli e per la cattiva interpretazione che del Corano essi danno. D’altronde, anche i cristiani, mal interpretando la Bibbia, organizzarono le crociate.
Secondo me (e poi passiamo ad altro, perché come al solito mi allungo), alla base non bisogna dimenticare che agiscono il denaro e l’ignoranza.
Oggi come va?
Oggi va bene: sono all’ultimo anno e quindi mi diplomo. Sono una babysitter part time; ho due nipoti che amo alla follia; il volontariato in Croce rossa va alla grande; quanto alla patente, l’ho presa alla prima… mi sono anche intervistata… Quindi direi che sono riuscita a fare un bilancio della mia vita fino a qui.
Aspetta… Cosa significa che hai due nipoti? Non eri figlia unica?
Sì, dal principio è stato così. Solo che nella vita può capitare che il destino ti faccia scoprire altro. Questo vuol dire che ad oggi vivo in una bellissima famiglia allargata: circa sette anni fa, infatti, ho trovato una persona che amo definire mio fratello. Non di sangue, ma di vita.
Una persona che c’è stata nei momenti difficili e nei momenti belli, con la quale ho riso fino alle lacrime e con la quale ho pianto per sfogarmi. E piano piano si è ritagliato questo ruolo.
Al suo fianco ci sono una donna con la D maiuscola e i loro due figli. Ecco per me il regalo più grande che potessero farmi è che i loro bambini mi chiamino zia, con una naturalezza e ingenuità tutta loro.
Mi emoziono solo a scriverlo.
Andiamo a concludere, tre cose che ami.
La pizza e le lasagne, valgono come uno. La mia grande e bella famiglia. Leggere.
Tre cose che odi.
La falsità della gente. I broccoli e i cavolfiori, anche questi valgono uno. Il freddo, sia meteorologico che nel cuore delle persone.
Va bene, ce l’abbiamo fatta, credo. Ultima cosa che vuoi dire?
Sono contenta di essere arrivata in fondo a questo esame di coscienza: pensare che all’inizio non sapevo nemmeno cosa scrivere. Ringrazio colui che mi ha incentivato a buttarmi in questa intervista. Devo dire che mi ha fatto bene. Bisognerebbe che tutti facessero la stessa cosa ogni tanto, così da alleggerirsi l’animo.