a cura di Gioia Lancetti – classe III/E – scuola Secondaria di I grado –
1 marzo 2022
Un teatro Lyrick al completo
Mille studenti di tante scuole, di vario ordine e grado, sono
accorsi con desiderio vivo di ascoltare la voce di una delle più
appassionate testimoni della Shoah, la scrittrice Edith Bruck,
una donna ebrea ungherese, semplice e determinata, che ha
parlato a tutti, con coraggio e audacia (affiancata ed
intervistata da Simona Sala, direttrice del tgr Umbria e da
Marina Rosati, responsabile del Museo della Memoria di
Assisi) del suo pesante trascorso al tempo della seconda
guerra mondiale, durante la tristemente famosa persecuzione
ebraica, perpetrata dalla Germania nazista di Adolf Hitler.
Il lungo racconto ha inizio da un avvenimento accaduto
durante la Pasqua ebraica (Pesah) del 1944.
In casa Bruck, situata in un villaggio poverissimo dell’Ungheria, abitato da una dozzina di famiglie ebree,
circolava aria di festa, impregnata di profumo di pane azzimo,
nel bel mezzo della lenta lievitazione: la mamma aveva potuto impastare grazie al dono di un po’ di farina della vicina di casa!
D’improvviso, un ragazzo del villaggio, poco più grande di
Edith, collaborazionista degli occupanti tedeschi, irrompe nella
cucina, sferra un pugno al capofamiglia e costringe tutti, a
suon di frustate, ad abbandonare la casa, senza neanche consentire loro di prendere un pezzo di quel pane, ormai un pane “andato perduto” (da qui il titolo dell’ultimo suo libro).
Dal centro di smistamento, vengono caricati a forza su un treno bestiame, occupato interamente da ebrei, tutti appiccicati, indifesi, così diversi, ma così simili nella tragedia!
Arrivano stremati, dopo un tempo infinitamente lungo, nella
fabbrica principale della morte, il campo di sterminio di
Auschwitz, in Alta Slesia, dove viene effettuata la prima
selezione in base al sesso e poi, successivamente, sulla base
delle abilità e dell’utilizzo che potrebbero avere nel campo di
lavoro.
La ragazzina viene separata dal padre, poi dalla madre, che
non vuole lasciarla, non potendo mai immaginare una vita
senza di lei; vorrebbe seguirla nel gruppo di sinistra, ma qui si
intromette una SS, che, in un moto di sorprendente umanità, la
spinge con la sorella Margaret a destra, verso quella che
scoprirà essere la via della vita, anche se una vita disumana e
durissima, nella quale, come ama dire Liliana Segre, “si
andava avanti per la Stella che ogni sera brillava in cielo” e
trasmetteva coraggio per affrontare la crudeltà del campo, il
freddo, la fame, la stanchezza, le malattie, i pidocchi: l’unico
appiglio per non lasciarsi travolgere dal “male totale” e poter
immaginare un continuo di vita oltre il filo spinato.
Dopo tre mesi, le due sorelle vengono mandate a Bergen
Belsen, altro campo di morte, in cui Edith ha la fortuna di essere scelta per un lavoro che la tiene in vita: si occupa della cucina dove, di tanto in tanto, può permettersi di ciancicare bucce crude di patate, pezzetti di pane duro, resti di legumi…
Qui miracolosamente riceve la vita da un suo collega, un
internato come lei, che la riveste di una nuova umanità,
chiedendole semplicemente il suo nome e regalandole un
pettinino, dono impensabile in quell’inferno! Edith pronuncia il
proprio nome e ritrova la dignità sottrattale, da un tempo che
non riesce a quantificare, durante il quale era stata solo un numero inciso sull’avambraccio.
La ragazzina uscirà dall’internamento soltanto nel 1945, con la liberazione del campo, grazie alle forze congiunte di Russi ed
Americani.
Libera, ma senza più riferimenti, vaga per molti anni in cerca di
un posto in cui stabilirsi, fino a quando, nel ‘54, giunge in
Italia, prima a Napoli, poi a Roma, dove tutt’oggi risiede, e dove
incontra l’amore, il regista Nelo Risi, compagno affettuoso
della seconda parte della sua vita.
Intanto la giovane donna sente sempre più prepotente il
bisogno di raccontare l’orrore che ha vissuto, che chiede con
urgenza di uscire dalla sua testa e dal suo cuore martoriato;
inoltre sa di aver promesso ai sopravvissuti, suoi compagni di
sventura, di non tacere, ma di testimoniare ogni brutalità,
crudeltà, disumanità, di portare alta la voce dei morti, degli
innocenti che non possono più raccontarsi. Così inizia a
scrivere, un racconto dopo l’altro, e a narrare le sue esperienze, nelle scuole, nei teatri, in giro per il mondo…Durante l’intervista, Edith ha fatto riferimento anche alla guerra che in questi giorni sta devastando l’Europa, mettendo a
rischio la pace che si era a fatica ripristinata dopo i due grandi
scontri mondiali, che ci sta catapultando in un mare
burrascoso, all’insegna di ordigni, sangue, morte, urla, divisioni, distruzioni, desolazione senza fine…
Per testimoniare a favore della vita, ha invitato tutti a scendere
in piazza e manifestare contro la guerra, a farci portatori di un
autentico messaggio di pace, poiché tutte le guerre sono insensate e non si può essere mai indifferenti alla sorte dei nostri fratelli, perché nel mondo di oggi non c’è più
lontananza, ma tutto è estremamente vicino: le culture, le
etnie, i modi di vivere e le tradizioni diverse rendono il mondo
colorato, una terra che va tenuta pulita dagli scontri, dalle
guerre, e che va coltivata, ogni giorno, da tutti, con semi di
pace e amore. Inoltre, come ci ha dimostrato Edith con il
proprio comportamento di fronte ai suoi aguzzini, occorre prendere coscienza che l’odio è una brutta bestia, che il rancore e la vendetta vanno estirpati dal cuore, perchè, se
tenuti troppo dentro, ci logorano e ci consumano, mentre la
nostra anima deve volare libera!