//Racconto “IL SUSSURRO DELLE STELLE” di Anna Lorenza Massaro – Primo Classificato Premio “Perrotta”

Racconto “IL SUSSURRO DELLE STELLE” di Anna Lorenza Massaro – Primo Classificato Premio “Perrotta”

di | 2024-05-09T15:55:58+02:00 9-5-2024 15:43|Alboscuole|0 Commenti
Sono tutto ciò che vorrei distruggere e nulla di tutto ciò che sono incapace di amare: pelle, carne, ossa, pensieri. Ora, di quel che rimane, l’unica lama con cui posso graffiare questo corpo sono le mie parole. “Codardo”, mi dicevo. “Quanti metri saranno? Dieci? Quindici?”. “Codardo” di nuovo. “Di cosa bisogna avere paura quando non si ha nulla da perdere?”. “Codardo”. Parole che risuonavano come un aspro sibilo nelle orecchie. “Al diavolo, sta’ zitto! Non sono un codardo!” Così ogni sussurro svanì. Avevo messo a tacere ogni obiezione. Era come se avessi fatto un tuffo verso la libertà che sapevo di non possedere, ma non mi ero reso conto di portare ancora ai polsi le catene che io stesso mi ero forgiato. Tutto ciò che so è che quella sciocca convinzione lasciò posto al dolore, un dolore atroce, dopodiché non capii più niente. “Fate largo, largo! È un codice rosso!” Paura. “Perde troppo sangue!” Preoccupazione. “Maschio, 23 anni, si è lanciato dal terzo piano, non so se ce la farà”. Dubbio. Questo sono io. Al mio risveglio non percepivo altro che il bianco penetrante del soffitto. Ne uscii con il braccio e la gamba di sinistra completamente fratturati, ma poco importava; non era il mio dolore a farmi stare male, ma piuttosto quello dei pazienti nelle stanze accanto alla mia. Parenti e infermieri entravano e uscivano: ciò che restava nell’ospedale erano i pianti, le urla, le sofferenze. Io era stato messo vicino alla stanza di una donna incinta sulla trentina, di nome Lucy. Suo padre era quello che le faceva visita più spesso, portando con sé qualche libro con cui intrattenerla; ogni tanto, vedendomi solo, mi invitavano a unirmi a loro, ma difficilmente accettavo. Quanto a me, non c’era molto da dire, o meglio, ero io a tenermi tutto dentro: mi sentivo come un fuggitivo a cui era stato sottratto l’unico mezzo per evadere: l’autodistruzione. Solo il terzo giorno ricevetti inaspettatamente un pacco contenente alcuni oggetti personali, con il triste scopo di farmi sentire a casa. Quello che mi sorprese di più fu trovarvi il mio set da disegno del liceo, con sopra una nota a penna: “Cresci, idiota. Ti voglio bene.” Un lieve sorriso mi balenò sul viso. Capii allora che il misterioso emittente non era altri che mia sorella. Era sempre la stessa. Non la vedevo dal funerale di nostro padre, ma sapevo che se n’era andata perché aveva bisogno di tempo, come ne avevo bisogno anch’io. Ciò che facevo per lo più in ospedale era ascoltare il rumore degli altri, non uno in particolare; rumore, che mi faceva sentire meno solo e, sebbene ne odiassi l’angoscia, divenne presto una distrazione. Indubbiamente il più piacevole era quello che animava l’aria durante le visite delle persone care, che in un contesto come quello, era un po’ come ricevere un regalo in una giornata spenta; sì, era il tipo di rumore che preferivo. Eppure, anche in quelle mura in cui tutto sembra statico, a un certo punto qualcosa si mosse, precisamente la notte del quinto giorno. Non mi piaceva stare lì quando imbruniva, per via dell’atmosfera che si creava, ma in quel contesto la sentii per la prima volta una cosa assai piacevole: un mormorio dolce, intento a creare un’armonia senza tempo; mi sporsi dal letto e la avvertii provenire da lì vicino. Così, senza pensarci, mi sedetti con sforzo sulla sedia a rotelle lì accanto, e mi immersi silenziosamente nel corridoio scuro. Era strano uscire da quella stanza tutto solo: mi sentivo come un bambino che aveva perso di vista la mamma e che veniva ora guidato dalle note di una voce che risuonava nel silenzio. Arrivai così ad una stanza poco distante dalle altre e, nell’affacciarmi alla porta, colsi il proprietario di quella melodia: un piccolo cespuglio di ricci castani contornava il profilo del viso rivolto al soffitto, mentre le spalle strette erano adagiate al letto. Di punto in bianco mi risvegliai dalla mia incoscienza: non avrei dovuto trovarmi lì. Ma proprio mentre retrocedevo a denti stretti, le ruote della sedia iniziarono a scricchiolare sulla soglia della stanza. “Chi c’è?” Non so quanti battiti saltai in quel momento, ma il suo sguardo perso, nonostante io fossi lì, mi face capire che non era in grado di vedermi. “Mi dispiace aver disturbato, avevo sentito dei rumori.” Ascoltava come se stesse immaginando la mia presenza là con lei. “Io sono Ellie” disse, poi aggiunse “Posso chiederti un favore?”. Sentendomi debitore del fastidio che avevo causato, acconsentii. “Descrivimi la mia stanza, altrimenti non riuscirò a capire cosa intonarle”. Non fu la sua bizzarra richiesta a stupirmi, ma la curiosità con cui me la porse: quindi mi avvicinai a lei e, a modo mio, esaudii la sua richiesta. La timidezza di quel primo istante svanì in un attimo. Quella notte parlammo come due bambini spensierati, che rincorrevano un discorso dietro l’altro, cullati da una strana malinconia. Non v’era alcun imbarazzo tra noi, solo la necessità, da parte di entrambi, di parlare e parlare del più e del meno. L’indomani chiesi all’infermiera di turno nella mia stanza qualche informazione su Ellie. Non capii se fosse più stupita per il fatto che le avessi rivolto la parola, vista la mia natura taciturna, o se per ciò che le avevo chiesto; ad ogni modo mi disse che aveva all’incirca la mia età, che era non vedente, come già avevo compreso, e che, per quel che sapeva, era affetta dal linfoma non Hodgkin, per curare il quale si era in precedenza rivolta ad altri due ospedali senza buon esito, dato il carattere aggressivo del tumore. Fu a quel punto che mi chiesi da dove provenisse quella fede che avevo scorto nei suoi occhi; mi chiesi perché, tra tutti, proprio lei avesse meritato quel male. Mi chiesi molte altre cose, che mi spinsero a vederla di più. Sentivo, credevo di poter fare qualcosa per lei, e non ne conoscevo la ragione. “Come si fa a far vivere qualcuno che sta per andarsene?”, mi chiedevo.  Quando andavo a trovarla era molto spesso sola, ma mi rivolgeva sempre un sorriso. Iniziai anche a portare con me il mio set da disegno, accostando lo scorrere della matita alla melodia dei suoi pensieri e dei nostri discorsi. “Come te la immagini la parola ‘fine’?”, le chiesi senza una particolare ragione. “La fine in realtà non esiste.”. Amavo l’unicità con cui rispondeva alle mie domande. “È semplice, è come per le stelle: a un certo punto, esplodono in qualcosa di più grande, maestoso, come se tutti i ricordi di una vita sbocciassero insieme. Forse è questo che siamo: un’indefinita galassia di supernove.” Ridemmo entrambi alle perle della sua immaginazione, ma in cuor mio sapevo che quell’affermazione aveva smosso qualcosa. D’un tratto il suo volto si fece più serio e mi prese gentilmente per mano. “Perché sei qui in ospedale? Come mai non sei lì fuori insieme agli altri?” . Mi si strinse il cuore. Dissi l’unica cosa che avrei potuto dire per giustificarmi: “Perché sono un codardo.” Prevedendo i suoi interrogativi, e forse anche con l’intento di dare a me stesso qualche spiegazione per la pugnalata che mi ero dato, decisi di precederla. “Non mi ero mai sentito così vuoto come negli ultimi tre anni. Quando mio padre si tolse la vita, divenni una torre di carte pronta a crollare; sentivo il peso di non essergli stato abbastanza vicino dopo che se ne era andata mia madre e questo non ha fatto altro che sigillarmi nella mia stessa angoscia. Ero diventato un ammasso di rabbia e alcool e decisi di prendermela con l’unica persona con cui averi potuto farlo, quella a cui avrei potuto dare la colpa e far pagare tutto: me stesso.” Fu il tiepido tonfo delle sue lacrime sulle nostre mani a farmi alzare lo sguardo e in quel momento compresi appieno quanto realmente pesasse ciò che avevo fatto. “Lui vive ancora in te, so che ti ha perdonato, lo so. Ora sei tu a dover perdonare te stesso. Sai, io non so quanto tempo mi rimane, forse tanto, forse pochissimo, ma mi hanno fatto vivere più le nostre conversazioni di questi giorni che quanto ho avuto in tutti questi anni. Fa’ vivere i tuoi ricordi, quello che porti dentro, quello che vuoi essere. Fa’ vivere te stesso come hai fatto vivere me in queste quattro mura. Promettimelo.” Non le avrei mai detto di no. “Te lo prometto.” In quel silenzio, ci abbracciammo come a sigillare la promessa che ci eravamo fatti. Quella fu l’ultima volta che la vidi: morì la notte stessa nel sonno. Stranamente, però, non mi sentii vuoto: mi faceva sorridere il pensiero che anche lei ora potesse essere lì in cielo e sapevo che aveva guarito in me qualcosa di importante. La settimana seguente arrivò la splendida notizia del parto di Lucy, che diede alla luce una bellissima bambina. Nella sua stanza alleggiava una straordinaria gioia e io decisi di parteciparvi; fui lieto di vedere il piacere di tutti i famigliari nell’avermi lì. “Non ho ancora deciso il nome da darle.” Mi confessò lei. “Tu quale proponi?” Intimidito, ci pensai bene e le dissi, “Che ne dici di Ellie?” Si apprestò a guardare il dolce viso della bimba e allegramente affermò: “Credo sia perfetto!” Volevo che Ellie non vivesse solo nei miei ricordi e cercavo di fare il possibile perché fosse così; quanto a me, dopo pochi giorni e qualche controllo, fui dimesso, non senza l’ultimo obiettivo di lasciare lì qualche pezzo di me. “Vorrei che esponeste questo disegno qui in ospedale, è per una persona importante e, beh, per tutti coloro che hanno bisogno di un po’ di speranza.” La direttrice ne fu molto contenta. “Sono stelle queste?”, mi chiese. “Sì, e se guarda con cura si accorgerà che tra loro ci siamo anche noi.” Insomma, ero ancora in sedia a rotelle, ma sapevo che sarei guarito, non solo esternamente. La sorpresa più bella al momento dell’uscita fu vedere il viso intenerito di mia sorella: una tempesta di lacrime, felicità e rabbia, che mi rese inspiegabilmente sereno. Compresi che sino ad allora il cieco ero stato io e nella brezza fredda del mattino le mie lacrime iniziarono a scaldarmi le guance. “Sei stato uno sciocco! Come hai potuto farlo?” In realtà ad entrambi non importava più, ciò che valeva era solo quel momento. Il nostro abbraccio. Il calore che ci davamo l’un l’altra. Avevo trascorso fin troppo tempo cercando qualcosa che già possedevo dentro di me, dovevo solo imparare ad ammirarne la bellezza. Così, alzando gli occhi al cielo sbiadito con un sorriso, consapevole del bene che il male mi aveva donato, mormorai “Grazie”.    

ANNA LORENZA MASSARO-CLASSE IV B LICEO CLASSICO

(PREMIO “PERROTTA” 2024)