Il monumento del “Seme d’arancia” a Barcellona Pozzo di Gotto è un’opera scultorea di cui i cittadini dal 1998 sono molto fieri, rappresentando la stessa un richiamo nazionale e internazionale ma al tempo stesso un ricordo delle proprie radici. Essa è quindi molto più di una semplice scultura. Realizzata da Emilio Isgrò, uno dei pochi scultori barcellonesi acclamati a livello mondiale – artista che si è sempre proposto l’obiettivo di rinnovare la cultura siciliana secondo lui molto distaccata dalle sue radici – l’opera è stata dedicata alla sua città, Barcellona Pozzo di Gotto, proprio richiamandone un elemento storico-culturale fondamentale: la coltivazione e il commercio degli agrumi. Le caratteristiche di questo monumento sono poi molto particolari. Innanzi tutto è alto 7 metri, non è in pietra né in marmo ma è in fiberglass, un tipo di plastica che scolpita con cura riesce a ricreare un effetto pietra come se veramente lo fosse. Inoltre, come possiamo capire dal nome, ha la forma di un “seme d’arancia”. Non è unico, come soggetto dell’artista, ma da quest’ opera ne sono nate altre molto più famose, come “Il seme dell’altissimo” e “Il seme dell’ozio”. Il più importante fra i due è “Il seme dell’altissimo”, che è molto simile al “Seme d’arancia” collocato a Barcellona ed è stato inaugurato all’ EXPO di Milano nel 2013, dove ancora si trova, mentre “I semi dell’ozio” hanno dimensioni molto diverse dal seme d’arancia, con un’altezza di 51 centimetri. Al di là del soggetto, comunque, per “Il seme d’arancia” il rinnovo della cultura siciliana è stato realizzato in modo molto più ampio. Nel luogo in cui è situata questa scultura, infatti, in epoca passata c’era la vecchia stazione ferroviaria da cui partivano i treni merci carichi di agrumi per i quali la città era famosa, tradizione ormai del tutto scomparsa. Da quest’opera e dai suoi molteplici significati, quindi, possiamo capire il carattere e l’amore di Emilio Isgrò verso la sua regione. Egli infatti non è stato solo uno scultore, ma anche un poeta, scrittore, drammaturgo e regista, ed è noto per il linguaggio artistico della “cancellatura”, secondo lui segno dell’adesione ma anche distacco da ciò che si cancella. Isgrò ha pubblicato i suoi scritti con importanti case editrici, come la Feltrinelli e la Mondadori, in particolar modo “L’Agamènnuni. L’Orestea di Gibellina” (Feltrinelli) e “Giovanna d’Arco” (Mondadori). Le sue poesie più famose, invece, sono le raccolte “L’età della Ginnastica” e “L’Oratorio dei ladri”, entrambe con Mondadori nel 1966; suoi romanzi celebri sono “Marta de Rogatiis Johnson”, pubblicato nel 1977 da Feltrinelli, e “Polifemo”, pubblicato nel 1989 da Mondadori. Nella sua multiforme carriera artistica, inoltre, Emilio Isgrò ha avuto anche l’enorme privilegio, da parte della Galleria degli Uffizi di Firenze, di esporre un suo autoritratto del 1971 dal titolo “Dichiaro di non essere Emilio Isgrò”. Più volte presente alla “Biennale d’Arte di Venezia”, nel 2017 debutta a Roma e a Parigi nella Galleria Tornabuoni con due importanti esposizioni che ripercorrono la sua vita. In più tre sue importanti opere, tra cui “Il Cristo cancellatore”, entrano a far parte del “Centre George Pompidou” di Parigi. Grazie all’Enciclopedia Treccani ha editato tutto il suo percorso artistico, per il quale il Comune di Milano lo ha insignito nel 2019 con il prestigioso “Ambrogino d’oro”. Queste sono, naturalmente, solo alcune mete più importanti perseguite e raggiunte da questo prodigio artistico di cui la sua città natale, Barcellona Pozzo di Gotto, non può non essere orgogliosa, nonostante dal 1956 egli risieda e operi a Milano. Sarebbe difficile, certo, elencare tutte le opere, poesie, romanzi e film realizzate da Emilio Isgrò, ma vogliamo concludere con una sua celebre frase, legata proprio al “Seme d’arancia” e alla sua maestosità, ovvero “Io non lavoro sulla clonazione planetaria”. Infatti questa frase ha un significato speciale e profondo, alla base della stessa ispirazione del grande artista, riferendosi al fatto che tutti noi non ingrandiamo ciò che è troppo vistoso ma, al contrario, dobbiamo INGRANDIRE L’INVISIBILE.
Tamara Ragusa