Per estensione i termini “foibe” e il neologismo “infoibare” sono diventati sinonimi di uccisioni che in realtà furono perpetrate in modo diverso: la maggioranza delle vittime morì nei campi di prigionia jugoslavi o durante la deportazione verso di essi. Anche se, secondo gli storici Pupo e Spazzali, l’utilizzo simbolico di questo termine, «può divenire fonte di equivoci qualora si affronti il nodo della quantificazione delle vittime», in quanto la differenza tra il numero relativamente ridotto dei corpi materialmente gettati nelle foibe, e quello più alto degli uccisi nei campi di prigionia, dovrebbe portare a parlare di “deportati” e “uccisi” per indicare tutte le vittime della repressione.
Le foibe tecnicamente sono le cavità naturali presenti sul Carso. Il nome (foiba) è un termine dialettale giuliano che deriva dal latino fovea (fossa, cava). In due riprese, durante la Seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra furono il palcoscenico di sommarie esecuzioni quando i partigiani comunisti del maresciallo Tito vi gettarono migliaia di persone colpevoli di essere italiane, fasciste o contrarie al regime comunista. Da questi massacri deriva il termine infoibare.
Si stima che le vittime in Venezia Giulia, nel Quarnaro e nella Dalmazia siano state, sempre secondo gli storici Pupo e Spazzali, tra le 3 000 e le 5 000, comprese le salme recuperate e quelle stimate, più i morti nei campi di concentramento jugoslavi, mentre alcune fonti fanno salire questo numero fino a 11 000. In generale però cifre superiori alle 5 000 si raggiungono soltanto conteggiando anche i caduti che si ebbero da parte italiana nella lotta antipartigiana; secondo altri potrebbero essere state ventimila.
Le uccisioni avvenivano in maniera spaventosamente crudele. I condannati venivano legati l’un l’altro con un lungo fil di ferro stretto ai polsi, e schierati sugli argini delle foibe. Quindi si apriva il fuoco trapassando, a raffiche di mitra, non tutto il gruppo, ma soltanto i primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell’abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati, condannati così a sopravvivere per giorni sui fondali delle voragini, sui cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili.
Nel 1943, dopo tre anni di guerra, le cose si erano messe male per l’Italia. Il regime fascista di Mussolini aveva decretato il proprio fallimento con la storica riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943. Ne erano seguiti lo scioglimento del Partito Fascista, la resa dell’8 settembre, lo sfaldamento delle nostre Forze Armate. Nei Balcani, e particolarmente in Croazia e Slovenia, le due regioni balcaniche confinanti con l’Italia, il crollo dell’esercito italiano aveva fatalmente coinvolto le due capitali, Zagabria (Croazia) e Lubiana (Slovenia).
La prima ondata di violenza esplose dopo l’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi di Tito si vendicarono contro i fascisti che, nell’intervallo tra le due guerre, avevano amministrato questi territori con durezza, imponendo un’italianizzazione forzata e reprimendo le popolazioni slave locali. Con il crollo del regime, i fascisti e tutti gli italiani non comunisti vennero considerati nemici del popolo, prima torturati e poi gettati nelle foibe.
La violenza aumentò nella primavera del 1945: alla fine della seconda guerra mondiale l’esercito jugoslavo occupò Trieste (1 maggio ’45), riconquistando i territori che, alla fine della prima guerra mondiale, erano stati negati alla Jugoslavia. Tra maggio e giugno migliaia di italiani abitanti dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia furono obbligati a lasciare la loro terra. Altri furono uccisi dai partigiani di Tito, gettati nelle foibe o deportati nei campi sloveni e croati. I primi a finire in foiba furono carabinieri, poliziotti e guardie di finanza, nonché i pochi militari fascisti della Repubblica sociale e i collaborazionisti che non erano riusciti a scappare per tempo (in mancanza di questi, si prendevano le mogli, i figli o i genitori). Ma vennero giustiziati anche i partigiani che non accettavano l’invasione jugoslava e normali cittadini (per regolamenti di conti personali o per la volontà di attuare una rivoluzione comunista).
Le prime ispezioni delle foibe istriane, che furono disposte immediatamente dopo il ripiegamento dei partigiani, conseguente alla successiva invasione nazista, consentirono il rinvenimento di centinaia di corpi.
Il compito di ispezionare le foibe fu affidato al maresciallo dei Vigili del Fuoco Arnaldo Harzarich di Pola, che condusse le indagini da ottobre a dicembre del 1943 in Istria, in particolare nella Foiba di Vines. La propaganda fascista diede ampio risalto a questi ritrovamenti, che suscitarono una forte impressione. Fu allora che il termine “foibe” cominciò ad essere associato agli eccidi, fino a diventarne sinonimo (anche quando compiuti in maniera diversa). Paradossalmente, l’enfasi data ai ritrovamenti da parte della Repubblica di Salò alimentò da un lato il clima di terrore che favorì il successivo esodo, dall’altro la reazione negazionista con cui le sinistre respinsero per molto tempo la fondatezza di un crimine denunciato per la prima volta dal nemico fascista.
Alla base di tanta violenza ci sono stati soprattutto: – una strategia mirata a colpire gli italiani e chiunque si opponesse all’annessione di quelle terre alla “nuova” Jugoslavia; – la vendetta per le atrocità nazifasciste; – i regolamenti di conti personali (spesso anche legate alle differenti origini) – la volontà di attuare una rivoluzione comunista includendo Trieste nella Jugoslavia socialista. I nuovi confini furono la causa dell’esodo forzato delle popolazioni italiane istriane e giuliane che fuggirono a migliaia, abbandonando le loro case e ammassando sui carri trainati dai cavalli le poche masserizie che potevano portare con sé. La stragrande maggioranza degli esuli emigrò in varie parti del mondo cercando una nuova patria: chi in Sud America, chi in Australia, chi in Canada, chi negli Stati Uniti. Ma tanti riuscirono a sistemarsi – faticosamente – in Italia. Solo nell’ottobre del 1954 l’Italia prese il pieno controllo di Trieste.
Il Giorno del ricordo è una solennità civile nazionale italiana, celebrata il 10 febbraio di ogni anno. Istituita con la legge 30 marzo 2004 n. 92, vuole «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».Nicolò Miglio e Francesco Gammarota 2^I