Sono sul banco di un tribunale virtuale, accanto a musica, film e altre forme di intrattenimento, i videogiochi sono accusati di fomentare, amplificare o addirittura scatenare la violenza nei ragazzi, e di modificare il funzionamento del cervello fino a causare dipendenza.
Che cosa dicono in proposito i ricercatori che studiano questi fenomeni?
Nel caso dei videogiochi, il problema è capire se tali modifiche siano in meglio o in peggio. Prima di tutto dobbiamo considerare il fattore tempo, che incide parecchio. Spiega infatti Balconi: «Ogni gioco protratto per un lungo periodo ha effetti su alcune regioni cerebrali e sui neurotrasmettitori».
Per esempio, una recente ricerca ha scoperto che gli effetti variano a seconda della tipologia di videogame.
Molte ricerche hanno per esempio mostrato che i giocatori di videogame di azione, in cui si avanza nel gioco uccidendo nemici o le gare di auto, dopo qualche mese di gioco hanno una migliore performance riguarda la vista. In generale, i videogiochi migliorano anche la velocità del passaggio tra un compito e l’altro, il cosiddetto multitasking, e aiutano ad “aggiornare” le informazioni in memoria, senza compromettere la rapidità di pensiero.
Visione e multitasking, però, non sono aspetti preoccupanti.
Nel 1992 uscì Mortal Kombat, che con i suoi combattimenti brutali appassionò migliaia di teenager, inquietò non poco e diede il via alle prime ricerche approfondite sugli effetti dei videogame sul comportamento. Nel 2005 l’American Psychological Association approvò una risoluzione (ribadita nel 2015) in cui evidenziava una relazione tra l’uso di videogiochi violenti, l’aumento del comportamento aggressivo e la diminuzione di quello pro-sociale e dell’empatia. La ricerca dell’Apa aveva numerosi limiti e fu criticata apertamente da oltre 230 psicologi statunitensi, che in una lettera aperta ne giudicarono affrettate le conclusioni perché si basavano su studi di laboratorio, senza connessione con la vita reale.
Un articolo del 2017 apparso su Psychology of Popular Media Culture (una pubblicazione accademica che fa capo alla stessa Apa) fece anche notare che secondo i dati del Dipartimento della giustizia degli Stati Uniti, l’uscita di videogiochi violenti come Grand Theft Auto San Andreas, Grand Theft Auto IV e Call of Duty Black Ops non corrispose mai a un aumento dei crimini violenti, né a un mese né a un anno di distanza.
I videogiochi, in definitiva, non sarebbero causa diretta di violenza e delinquenza nel mondo reale. Spiega Balconi: «È il contesto che fa la differenza. Se la violenza è l’unico tipo di socializzazione che conosco, è chiaro che diventa il mio modello». È l’ambiente che porta a comportamenti aggressivi: se alcuni di questi adolescenti hanno giocato a un videogame prima di uscire a fare una strage, è solo una coincidenza.
Le cose quindi non sono semplici: accusare i videogiochi di indurre alla violenza o alla dipendenza è semplicistico e in fondo sbagliato. In un contesto, familiare o genetico, che non porti alla violenza, i ragazzi che si mettono davanti allo schermo non diventano aggressivi o assassini. «Di per sé i videogiochi non hanno una valenza positiva o negativa», conclude Balconi, «sono uno dei tanti strumenti che consentono di esprimere forme di socializzazione diverse». Sta alla società costruire attorno al giocatore un ambiente per cui i videogame rimangano solo strumenti per giocare.
D. Bonaventura 2H