Spesso non ci pensiamo, ma c’è una palese – e illogica – strategia con cui l’uomo occidentale si diverte a “smistare” le persone.
Dopo l’ennesimo attentato in America, svoltosi durante un concerto, il presidente Trump ha così “etichettato” l’artefice, Stephen Paddock: “un folle pieno di problemi, un individuo molto malato”. E così, anche quest’ultimo, come tanti altri Americani bianchi, viene inserito nell’infinita lista di autori di stragi “pazzi” o afflitti da qualche grave malattia psicologica.
Consideriamo, invece, qualche articolo di giornale a proposito di stragi compiute da individui di etnia diversa: il primo elemento che viene evidenziato è proprio l’origine del protagonista – così da assicurare ai lettori che non si tratta di un loro simile – e poi non si parla di suoi possibili disturbi mentali, ma si cerca di convincere che l’atto è germogliato da un seme di puro odio e, perché no, da invidia verso i bianchi.
Ora, non si vuole certo qui mettere in discussione il fatto che diversi criminali caucasici non soffrano di gravi malattie, né, viceversa, che certi criminali di colore non abbiano mai agito spinti dall’odio: piuttosto si vuole far notare una incongruenza che domina nella società e soprattutto nei media, che hanno questa assurda mania di “smistare” i criminali in base alle loro origini, per cui chi è bianco e magari frequentatore dell’università non può che essere un malato mentale, quasi da compatire, se dovesse usare un’arma e uccidere decine di persone, mentre chi è arabo e con un passato incerto non può che essere designato come terrorista che vuole sterminare l’indifesa “razza” bianca. A questa dicotomia viene ridotto un argomento molto delicato: a una visione “bianconera” che non riesce a tenere conto degli altri mille colori nel mezzo.
E’ questa una sorta di “costruzione” sociale a cui ci si attacca per poter meglio identificare la minaccia: in fondo, i cittadini senza di essa dovrebbero vivere nell’incertezza, con il continuo dubbio che tutti e nessuno possono far loro del male, e invece tutti quanti hanno un disperato bisogno di sapere chi incolpare.
Mentre nuotiamo nelle nostre certezze, però, rischiamo di sembrare ingenui e di non comprendere come funziona il mondo al di fuori della nostra “bolla”: ad esempio, quanti Americani sanno che proprio sul loro territorio nazionale agisce, quasi indisturbato, un folto gruppo neonazista che il 2 gennaio scorso ha ucciso un diciannovenne di origine ebraica, Blaze Bernstein? E, se anche lo sanno, sospettano forse che si tratti di un’associazione di più di cento malati mentali che come terapia uccidono gli Ebrei, gli omosessuali, i neri?
Oppure è il mondo che deve svegliarsi e rendersi conto che non può e che, anzi, non deve fermarsi all’apparenza e che l’umanità è, per natura propria, completamente imprevedibile e che i suoi comportamenti non dipendono certo dai modelli che noi stessi creiamo?
Probabilmente è proprio questo il punto più importante: forse dovremmo accettare che il nostro vicino di casa, padre di famiglia, non esce tutte le mattine alle quattro per arrivare prima al lavoro, ma per partecipare all’incontro segreto di qualche setta estremista; e che, viceversa, il ragazzo africano che vediamo correre via ogni tanto, con lo sguardo sospetto, non sta fuggendo con della droga, ma portando la spesa alla famiglia.
E da uomini, forse, dovremmo capire che gli uomini non possono essere divisi in semplici categorie, perché gli uomini, cioé noi, non siamo tanto facili da catalogare.