Roberta Di Marzio. Angelo Ferri. Nicolas Ferri.
Qualche mese fa, Daniele Nardi e Tom Ballard, giovani alpinisti, hanno tentato la scalata più rischiosa al mondo, quella del Nanga Parbat (8126 m) il monte appartenente alla catena dell’Himalaya.
La sfida è stata fatale per i due che hanno concluso la loro impresa a circa 5.900 metri d’altezza, punto in cui i loro corpi sono stati rinvenuti dopo lo scioglimento della neve che li aveva sepolti.
Alex Txikon capitanava la squadra incaricata del recupero che concluse la ricerca in nove giorni con l’avvistamento di Daniele e Tom ormai privi di vita. Uno degli aspetti più drammatici della vicenda riguardava sicuramente l’impossibilità di riportare i corpi dei due alpinisti in Italia. Il recupero infatti, risultava difficile e le squadre coinvolte, non avrebbero messo a repentaglio la propria vita poiché il rischio di valanghe era molto alto.
I corpi sarebbero restati lì almeno fino alla nuova stagione, cioè quella che sta per cominciare. Ma non è questo l’unico elemento che fa di questo evento una tragedia. Ci sono, ad esempio, le parole di uno dei protagonisti della vicenda, Daniele Nardi, conscio dei pericoli della sfida che già aveva lanciato alla natura per ben cinque volte, una sfida questa volta dimostratasi fatale:<<Mi piacerebbe essere ricordato come un ragazzo che ha provato a fare una cosa incredibile, impossibile, che però non si è arreso e se non dovessi tornare il messaggio che arriva a mio figlio sia questo; non fermarti non arrenderti…>> La voglia di emergere, di lasciare un segno indelebile nella mente di tutti e di diventare “il mito della montagna” hanno dunque prevalso (persino) sul senso di responsabilità familiare? Sembrerebbe di sì se neppure la neo-paternità è riuscita a fermare il giovane alpinista, che ha lasciato un figlio di pochi mesi. Si tratta di una disgrazia preannunciata da molti a causa della estrema difficoltà dell’impresa che ha destato critiche da parte di esperti del settore e non solo. Nell’immediatezza dei fatti era facile imbattersi sui social in giudizi impietosi su chi pratica tale sport descritto come un folle che non bada al rischio e mette a repentaglio la propria vita per scalare delle vette impossibili. C’è pure chi, come Simone Moro, sostiene con maggiore autorevolezza che l’impresa tentata da Daniele e Tom non sia un buon esempio per i giovani alpinisti. Secondo l’alpinista bergamasco, il percorso che si sceglie di deve essere difficile non rischioso. Rischiose si definiscono spedizioni talvolta suicide per la presenza di fattori esterni non prevedibili e ai quali non è possibile prepararsi. I percorsi difficili invece, comprendono difficoltà che grazie a molti sforzi e allenamenti é possibile superare.
Gli elementi della tragedia dunque ci sono tutti, dalla sfida alla morte al superamento dei propri limiti, al pianto dei superstiti e persino alla condanna a ripercorrere un destino paterno o materno come nel caso di Tom che aveva perso sua madre in una impresa simile. La verità è che da qualunque punto di vista si osservi questa storia, la sensazione è che se ne esca perdenti. Perché quando due ragazzi muoiono quale che sia la ragione tutti abbiamo perso. E se neanche la bella stagione riuscirà a restituirci i loro corpi, la sconfitta sarà doppia.