STORIE DI PRIGIONI, PRIGIONIERI ED ALTRE PRIGIONIE
Chi di noi in questo lunghissimo periodo di quarantena che abbiamo vissuto a causa del Coronavirus non ha per un attimo detto o pensato di “sentirsi in prigione”?!Siamo stati privati della libertà e questo ci ha fatto sentire dei prigionieri pur non avendo commesso alcun reato! La privazione della libertà è infatti per lo più considerata come la pena per la commissione di un crimine: chi trasgredisce gravemente la legge viene condannato ad un periodo di reclusione in carcere.Oggi tale periodo, nel nostro ordinamento penale, non ha solo uno scopo punitivo: per espressa previsione costituzionale, la pena serve anche a rieducare il condannato, favorendo il suo reinserimento nella società. Ma non è sempre stato così e lo si può dedurre anche dagli studi sull’origine della parola “carcere”; il termine potrebbe derivare dal verbo latino coercere: costringere, o dal sostantivo carcer: recinto, o ancora dall’aramaico antico carcar: tumulare (relativo al periodo durante il quale venivano utilizzate cisterne sotterranee per isolare e controllare più facilmente i condannati). Le diverse possibili etimologie individuano comunque nel carcere del passato un luogo esclusivamente di reclusione temporaneo nel quale si veniva obbligatoriamente rinchiusi in attesa di giudizio.Nel sistema punitivo romano il carcere serviva solo“ad continendos homines, non ad puniendos”.Il diritto romano prevedeva pene di carattere privatistico e pene di carattere pubblicistico. Le pene private erano prevalentemente pene pecuniarie mentre le pene pubbliche mutarono nel corso del tempo: la più grave rimase la pena di morte ma tra le altre vi erano, la fustigazione, l’esilio, le pene pecuniarie, i lavori forzati nelle miniere o i giochi del circo. Il sistema penale medievale non permise lo sviluppo del sistema carcerario, la pena consisteva nel risarcimento del danno o nella riparazione dell’offesa ed era volta a sostituire la vendetta.Anche nella società feudale la detenzione era preventiva e non punitiva. La pena consisteva nella privazione dei beni universalmente riconosciuti come valori sociali: la vita, l’integrità fisica, il denaro. Nell’epoca feudale la giustizia era amministrata dal Signore e le pene variavano secondo la sua volontà e potevano essere di carattere pecuniario o corporale. La detenzione e la tortura servivano principalmente per ottenere la confessione dell’imputato e la sua condanna. Le prime ipotesi di pena detentiva e reinserimento socialea ffiorarono nel XVI secolo. In Inghilterra ladri, prostitute, poveri e vagabondi cominciarono ad essere rinchiusi nel palazzo di Bridewell con l’obbligo di riformarsi. Nel 1557 nacque infatti la prima “house of correction” in cui il tempo ed il lavoro erano rigidamente organizzati. Questa situazione europea durò fino alla Rivoluzione Francese. Durante l’Ancien Régime il sovrano poteva mostrare il proprio controllo e potere sui suoi sudditi agendo sul corpo del condannato che diveniva in tal modo esempio del male e delle sue conseguenze. Fu l’avvento dell’Illuminismo, e di alcuni dei più grandi pensatori come Bentham e Beccaria, ad avanzare la possibilità di un “disciplinamento sociale”. Diminuirono le pene corporali con l’intento di intervenire non più sul corpo, ma sull’anima dell’imputato ed emersero molte teorie sulla carcerazione e sulla gestione degli istituti penitenziari.Ad esempio il Panoptico nera un carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham; consentiva ad un unico sorvegliante di osservare (opticon) tutti (pan) i reclusi senza permettere a questi di capire se fossero in quel momento controllati o no.Il carcere aveva una pianta circolare e prevedeva una torre centrale per i sorveglianti circondata da numerose celle tutte visibili; essi potevano osservare e controllare i detenuti senza essere visti tramite. Secondo Bentham questo tipo di detenzione poteva portare a un autocontrollo dei detenuti che, costretti per un periodo di tempo ad un comportamento corretto, avrebbero cambiato il proprio carattere. In Italia, la pubblicazione nel 1764 di “Dei Delitti e delle Pene” di Cesare Beccaria evidenziava la presenza di un sistema giudiziario non funzionale che, operando ingiustamente e in modo violento, era ritenuto responsabile dell’aumento della criminalità.La dottrina giuridica illuminista rifiutava dunque nettamente la crudeltà della detenzione, del lavoro sino allo sfinimento, delle pene corporali e dell’assenza di igiene, luce ed addirittura cibo nelle carceri.Tali dure critiche influenzarono notevolmente il pensiero europeo, gettando le basi di una cultura che si sarebbe affermata negli anni a venire ed in cui i criminali iniziano ad essere considerati soggetti da rieducare per essere nuovamente inseriti nella società.La nostra Costituzione ha recepito tale concezione e dunque offre a chi venga condannato al carcere l’opportunità di correggere la sua antisocialità, di adeguare il suo comportamento alle regole giuridiche per poi poter tornare libero.Oggi in Europa gli istituti penitenziari, nonostante lo scopo comune del reinserimento sociale, sono molto diversi tra loro.Nei Paesi scandinavi, ad esempio, il sistema di carcerazione è considerato molto efficiente ai fini del recupero e del reinserimento sociale degli individui pericolosi. In Norvegia, una sentenza di condanna alla reclusione raramente supera i 120 giorni. Trascorso questo periodo avviene il trasferimento in altri istituti noti come “prigioni aperte”, sparse in tutto il paese, talvolta situate in luoghi “idilliaci”dove i detenuti apprendono lavori manuali, si dedicano alla coltivazione della terra e all’allevamento degli animali. Questo particolare trattamento, basato sulla disciplina e sul rispetto degli esseri umani in quanto tali, permette un buon reinserimento sociale ed è uno dei motivi per i quali la Norvegia è tra i paesi con il minor tasso di criminalità e di recidiva in tutta l’Europa.La Danimarca, basandosi sul “principio della normalizzazione”, inserisce i detenuti in un contesto protetto che però rispecchia quello della vita quotidiana, mantenendosi in linea con le prassi norvegesi. La particolarità di questo sistema offre ai reclusi la possibilità di convivere in comunità all’interno di “prigioni aperte” nelle quali i detenuti imparano ad essere autonomi e ad autogestirsi. Questi modelli di recupero e rieducazione avvengono all’interno di luoghi controllati, ma umanamente vivibili, dove l’obiettivo è quello di dare una seconda possibilità attraverso il lavoro manuale e la creatività.Lo scopo in Italia sarebbe lo stesso ma,sebbene la nostra Costituzione all’art.27 dica che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato,il nostro sistema carcerario e le sue modalità di funzionamento non sempre favoriscono il mantenimento di questi principi. Enormi problematiche interessano le nostre istituzioni carcerarie, tra cui il sovraffollamento delle strutture. Anche la lunghezza della pena (20, 25, 30 anni o, nei casi peggiori, l’ergastolo) può generare grandi disagi psicologici; ne è prova il fatto che non solo i detenuti ma anche le guardie carcerarie giungono a decisioni estreme come togliersi la vita.Vi sono però degli istituti penitenziari che hanno adottato dei modelli organizzativi che funzionano e producono cambiamenti positivi. Il carcere di Rebibbia a Roma,per esempio, fa svolgere ai carcerati l’attività teatrale, che ha portato dei benefici notevoli: la recidiva tra i detenuti che intraprendono questo percorso artistico è scesa drasticamente dal 68% al 15%. Concludo il mio lavoro con una citazione di Nelson Mandela, un grande politico ed attivista per i diritti civili: “Si dice che uno non conosce davvero un paese finché non è stato nelle sue carceri. Un paese non dovrebbe essere giudicato da come tratta i suoi cittadini più in alto, ma da quelli più in basso”.