Negli ultimi tempi il diritto di manifestare è diventato oggetto di discussione e preoccupazione in Italia e in molti Paesi europei. Eventi recenti, come l’aumento delle proteste in ambito ambientale, sociale e politico, hanno evidenziato un crescente contrasto tra la libertà di esprimere il dissenso e le misure di sicurezza adottate dalle autorità.
In determinati casi, interventi volti a “mantenere l’ordine pubblico” hanno ostacolato l’esercizio del diritto di manifestare, provocando un acceso dibattito sulla legittimità di tali interventi alla luce delle garanzie previste dalla nostra Costituzione e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).
L’articolo 21 della Costituzione italiana tutela la libertà di espressione, mentre l’articolo 17 sancisce il diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Questi articoli costituiscono i presupposti del diritto di manifestare e sono indispensabili per il buon funzionamento di una democrazia. La possibilità di esprimere pubblicamente il dissenso è, infatti, un mezzo fondamentale per portare alla luce problematiche sociali che altrimenti rimarrebbero inascoltate nonché le violazioni dei diritti umani.
A livello sovranazionale, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, firmata nel 1950 e ratificata dall’Italia, tutela il diritto di manifestare e di riunirsi pacificamente nell’art.11. La CEDU riconosce che ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione e di associazione e che questo diritto può essere limitato solo in circostanze eccezionali, quali la sicurezza nazionale, la sicurezza pubblica e la prevenzione dei disordini. Tuttavia, le restrizioni devono sempre essere proporzionate e strettamente necessarie, non eccessive.
Secondo Amnsty International ” In tutta Europa il diritto di riunione pacifica è fortemente minacciato perchè gli Stati stigmatizzano, criminalizzano e reprimono sempre più spesso i manifestanti pacifici, imponendo restrizioni ingiustificate. La legittimità delle manifestazioni viene messa in discussione da “una retorica ufficiale” che utilizza termini come ” Terroristi” ” criminali” “estremisti” per persone che esercitano il proprio diritto a manifestare.
Dall’ultimo rapporto di Amnesty International che ha analizzato 21 paesi in tutto il Continente emerge un quadro inquietante. Leggi e politiche repressive, pratiche ingiustificate e tecnologia di sorveglianza abusiva stanno rendendo la vita difficile a chi vuole esercitare un proprio diritto. E’ il caso della Svizzera dove persino nelle Università come il Politecnico di Zurigo e l’Università di Ginevra sono stati vietati eventi e manifestazioni di dissenso rispetto alla situazione in medio Oriente o addirittura dibattiti nei quali potessero emergere “pregiudizi politici” anti-israeliani.
Eppure“Il diritto internazionale riconosce che le università, e in particolare le istituzioni pubbliche come l’Università di Ginevra e il Politecnico federale di Zurigo, svolgono un ruolo essenziale nella protezione e nella promozione dei diritti umani tra le persone parte delle loro comunità”, sottolinea Anita Goh, giurista di Amnesty International Svizzera.*
Anche in Italia non sono mancate situazioni in cui il diritto di manifestare sebbene teoricamente riconosciuto non è stato pienamente garantito.
Lo scorso 23 febbraio a Pisa per fare un esempio, durante una manifestazione pro Palestina si sono verificati scontri tra la polizia ed i manifestanti, studenti in gran parte minorenni. Al tentativo di forzare un posto di blocco si è risposto con una carica della polizia Alcuni ragazzi sono finiti in ospedale. Stessa dinamica a Firenze. Il Presidente della Repubblica intervenendo sugli episodi ha asserito: “I manganelli contro i ragazzi esprimono un fallimento”.
E l’ultimo provvedimento legislativo approvato dalla Camera il 18 settembre scorso ha generato un inevitabile dibattito.
L’obiettivo principale di tale misura sarebbe quello di garantire l’ordine pubblico, la strategia per raggiungerlo è l ‘ inasprimento di pene già previste dal nostro ordinamento e l’introduzione di nuovi reati quali il blocco stradale, anche pacifico, che da illecito amministrativo diventa reato con condanne fino a due anni di carcere, fino a quindici anni per resistenza attiva a pubblico ufficiale, fino a quattro anni per resistenza passiva, il carcere anche per le donne incinte o per quelle con figli di età inferiore a un anno. Lo stesso ddl introduce l’aggravante per chi si oppone alle grandi opere pubbliche e prevede pene fino a vent’anni per chi protesta nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) e nelle carceri.
Il punto allora è: “sono quelli appena esposti provvedimenti volti a garantire l’ordine pubblico, messo talvolta in pericolo dalle manifestazioni, o l’obiettivo è reprimere queste ultime?” La linea è sottile. E’ imprevedibile, se non inevitabile che nel corso di manifestazioni di qualsiasi tipo qualcuno ricorra alla violenza o compia atti offensivi del decoro di chi è preposto alla tutela di tutti. In alcuni casi, come spesso è avvenuto in manifestazioni assolutamente pacifiche si infiltrano facinorosi e violenti del tutto estranei alle ragioni della manifestazione. Tuttavia bisogna ricordare che la gestione dell’ordine pubblico non si può assicurare negando dei diritti sanciti a livello costituzionale e fondamentali per la democrazia.
Le autorità hanno il dovere di garantire la sicurezza pubblica e di proteggere i cittadini, manifestanti compresi, da potenziali atti di violenza che potrebbero verificarsi durante le proteste senza criminalizzare le stesse. E ciò è possibile solo a patto che si accetti e si gestisca con saggezza ed equilibrio, come tante volte le nostre forze dell’ordine hanno dimostrato di saper fare, il dissenso.
Benedetta De Lucia