Capita spesso, nella società moderna, di sentire quasi il dovere morale di mostrare gli altri la versione migliore di noi stessi, di confinare ansie e preoccupazioni in un angolo e sfoderare un bel sorriso per compiacere chi ci sta intorno. Abbiamo uno strano modo di affrontare la tristezza, quasi come fosse un sentimento da vivere in segreto, un ostacolo alla nostra realizzazione personale, un peso di cui liberarsi. Che la malinconia sia un’emozione da condannare è una bugia che ci raccontiamo perché abbiamo disimparato ad essere tristi.
Fino al XVII secolo, questo sentimento veniva considerato la peculiarità di letterati, inventori e uomini di scienza, in quanto si credeva strettamente collegato con l’intelligenza creativa. Una delle conseguenze della malinconia, infatti, erano le frequenti allucinazioni, a loro volta fonte di idee feritili e geniali che portavano alla produzione di brillanti testi letterari, composizioni musicali o artistiche e –perché no- progetti da elaborare e trasformare in utili invenzioni. Paradossalmente, essere tristi era quasi un privilegio.
La società moderna, invece, tende ad esaltare le emozioni convenzionalmente indicate come positive, quali la felicità e la spensieratezza, e non esiste nulla di fondamentalmente sbagliato in questa pratica finchè essa non si traduce nella stigmatizzazione della tristezza, spesso additata come un male al quale bisogna assolutamente trovare una cura. La tristezza altro non è che un’amara conseguenza dello stare al mondo che necessita di essere vissuta per poter essere esorcizzata. Si tratta di una condizione transitoria che non può essere superata nascondendosi dietro un muro di vergogna e insicurezza, ma soltanto accettandola e riconoscendola come tale.
Spesso temiamo che riconoscere di essere tristi possa renderci meno interessanti agli occhi degli altri, quando in realtà questo non fa latro che renderci più umani. Non esiste nessuno che non abbia sperimentato la tristezza almeno una volta nella vita e mostrarsi vulnerabili, contrariamente a quanto possiamo pensare, non significa dar prova di debolezza. Essere in grado di chiedere aiuto quando ne sentiamo il bisogno è sintomo di grande forza e maturità, anche se spesso la possibilità di non trovare nessuno pronto a tenderci la mano ci spaventa.
Siamo così impegnati a cercare di zittire le nostre emozioni che ci precludiamo la possibilità di imparare a gestirle, scoprendo di possedere già dentro di noi tutti i mezzi necessari per affrontarle. La paura ci rende ciechi e non riusciamo a renderci conto che la tristezza è soltanto tristezza, e per questo passerà.
Alleggerire il peso della nostra malinconia è possibile, ma non esiste una soluzione univoca per farlo e ciascuno di noi deve lavorare su se stesso per cercare di scovare quella che faccia al caso suo. Alcuni, ad esempio, prendono spunto dai nostri avi e esprimono la propria infelicità nell’arte, nella scrittura, nella musica o in qualsiasi forma che dia libero sfogo alla creatività, mentre altri preferiscono trascorrere del tempo con se stessi, riflettere e prendersi una pausa dal mondo circostante o, al contrario, dal proprio cervello, e fuggire da questa sensazione rifugiandosi negli amici e nel divertimento.
Non esiste un modo giusto o sbagliato di vivere la tristezza, l’importante è affrontare questo sentimento senza lasciare che ci sopraffaccia e tenendo sempre a mente che, seppur non possiamo scegliere le nostre emozioni, siamo noi ad esercitare su di esse il controllo e mai il contrario.