di Alice Grazia Mazzucco, Alessia Passaretti IVD
Leggendo la Commedia ci accorgiamo subito del forte grado d’identificazione della lingua che parliamo oggi con la lingua usata da Dante, pur tenendo conto delle inevitabili modificazioni lessicali, sintattiche e fonetiche, dovute al trascorrere dei secoli.
La Divina Commedia è stata tradotta in molte lingue in tutto il mondo. E, traduzioni a parte, le sue citazioni sono presenti non solo in molti adattamenti cinematografici, ma anche in film e serie TV, come L’Era Glaciale, Hannibal, Ghostbusters II, How I Met Your Mother e Law Order.
INFERNO:
“Bella persona”: «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende / prese costui de la bella persona che mi fu tolta; / e ‘l modo ancor m’offende»: nei versi 100-102 del V canto dell’Inferno, Francesca da Rimini sta parlando del modo in cui Paolo Malatesta si era innamorato della “bella persona” di lei, poi brutalmente e prematuramente uccisa. “Bella persona” si usa oggi soprattutto in riferimento a caratteristiche interiori, più che esteriori.
“Galeotto fu”: «la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non vi leggemmo avante». Siamo nel V canto dell’Inferno, versi 136-138; Francesca sta raccontando a Dante della passione bruciante vissuta con Paolo. In particolare, Francesca spiega che i due si erano baciati per la prima volta durante la lettura di un romanzo cavalleresco in cui Ginevra, sposa di Artù, viene baciata da Lancillotto: la passione descritta nel brano, insomma, li spinse a baciarsi. Il libro fece da galeotto tra loro, come Galeotto (Galehaut), siniscalco della regina Ginevra, aveva fatto da tramite tra la regina e il suo amato nei romanzi del ciclo bretone. Originariamente, galeotto era un nome proprio, solo successivamente è diventato un nome comune, seguendo il processo di antonomasia.
“Il Bel Paese”: è una espressione poetica per definire l’Italia (bella per il clima, per la cultura, per il paesaggio), usata da Dante nel canto XXXIII dell’Inferno, al verso 80: «del bel paese là dove ‘l sì suona». La stessa espressione ricorre anche in Petrarca, in particolare nel Canzoniere, CXLVI, vv. 13-14: «il bel paese / ch’Appennin parte e ‘l mar circonda e l’Alpe». Ancora oggi, ci si riferisce spesso all’Italia con questa espressione.
“Senza infamia e senza lode“: l’espressione si impiega per riferirsi a una cosa, a un lavoro o a una persona mediocri, senza particolari qualità. È stata usata da Dante nel III canto dell’Inferno, versi 35-36, per indicare le persone che si rifiutano di prendere una posizione per pigrizia, per indifferenza o per quieto vivere (successivamente definite “ignavi” dalla critica dantesca): «coloro / che visser sanza‘nfamia e sanza lodo». Anche Antonio Gramsci ce l’aveva con gli indifferenti, che richiamano, nella definizione del pensatore, proprio gli ignavi di Dante: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”.
“Stai fresco / stiamo freschi”: usato ironicamente, come si fa con “tutto a posto”, con significato antifrastico, cioè per dire, al contrario, che andrà tutto male, il modo di dire deriva dal verso 117 del canto XXXII dell’Inferno, «là dove i peccatori stanno freschi». Il riferimento è al lago Cocito, «un lago che per gelo avea di vetro e non d’acqua sembiante», come descrive Dante nei primi versi del canto, nel quale i peccatori stanno immersi in maniera proporzionale alla gravità del peccato da loro commesso.
“Non mi tange”non mi interessa, non mi tocca, non mi riguarda. «Io son fatta da Dio, sua mercè, tale, / Che la vostra miseria non mi tange», leggiamo ai versi 91-92 del Canto II dell’Inferno. È Beatrice a parlare; e lo fa per rassicurare Virgilio del fatto che nulla di ciò che dovesse accadere all’Inferno potrà in alcun modo ferirla, perché lei è “fatta da Dio” e per questo le miserie umane, per l’appunto, non la tangono, non la toccano.
Lasciate ogni speranza voi ch’entrate”: ancora una volta, siamo nel Canto III dell’Inferno, versi 6-9: «Dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro. / Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate». È la scritta incisa sulla porta dell’Inferno, che incute terrore in Dante. Virgilio, a quel punto, lo prende per mano per condurlo nel regno delle tenebre.Il verso, ovviamente, allude al fatto che le anime dannate devono, entrando nell’Inferno, abbandonare qualsiasi speranza: la loro pena è per sempre. Oggi la frase si usa perlopiù in modo scherzoso davanti a una prova ardua o a un compito percepito come particolarmente difficile da affrontare.
“Non ti curàr di lór, ma guarda e passa”: anche stavolta il detto si rifà al Canto III dell’Inferno, versi 49-51, seppure con qualche differenza: «Fama di loro il mondo esser non lassa; / misericordia e giustizia li sdegna: / non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Virgilio sta indicando a Dante i vili, gli ignavi , di cui non è rimasta nessuna traccia nel mondo; per questo, vanno semplicemente ignorati, senza perdere neanche un attimo in più a ragionare sul loro conto. La versione popolare del verso, usatissima sui social, viene usata per esortare una persona a non far caso ai detrattori o a coloro che la stanno insultando, andando, appunto, oltre, senza curarsene. Ma il verso dantesco, in realtà, è “non ragioniam di lor”!
PURGATORIO:
“Libertà va cercando, ch’è sì cara”: sono le parole rivolte da Virgilio a Catone Uticense (custode dell’accesso al monte del Purgatorio) per presentargli Dante in quanto “cercatore di libertà”; le successive (come sa chi per lei vita rifiuta, v. 72), sono invece riferite al suicidio di Catone. Il giudizio dantesco sul suicidio, esplicitamente condannato nel canto infernale di Pier della Vigna, è qui capovolto come eccezione, in virtù dello scopo eroico di libertà “politica” di quel gesto di Catone (come accennato nel De Monarchia, II 5, 15); la libertà ricercata da Dante è invece quella dal male, intrinseco nella condizione umana
“Oh vana gloria de l’umane posse!”: Oh vana gloria de l’umane posse! /com’ poco verde in su la cima dura, /se non è giunta da l’etati grosse! (vv. 91-93 del canto XI del Purgatorio); è la condanna della gloria terrena rispetto all’eterno.
“Non è il mondan romore altro ch’un fiato di vento”: (v 100 Canto XI Purgatorio) Non è il mondan romore altro ch’un fiato/ di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, /e muta nome perché muta lato. La fama che vige nel mondo dei mortali non è altro che un alito di vento, che soffia ora da una parte e ora dall’altra, e cambia nome poiché cambia direzione.
“Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?”: il verso dantesco (v. 97 canto XVI Purgatorio ) è diventato un proverbio, citato da chi deve amaramente constatare che la vera colpa del male non sta nelle leggi sbagliate o assenti, bensì nel fatto che quanti dovrebbero farle rispettare sono distolti da tutt’altri interessi che non il bene pubblico. Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?/ Nullo, però che ’l pastor che procede,/rugumar può, ma non ha l’unghie fesse; (Le leggi ci sono, ma chi le fa rispettare? Nessuno, dal momento che/ il pastore (il papa) che guida il gregge può ruminare, ma non ha le / unghie fesse;)
“Ancora freno a tutti orgogli umani”: La frase di condanna al folle gesto di Serse deciso a invadere la Grecia (v. 72) vale ancora oggi per quanti da un atto di prepotenza e di inutile orgoglio devono imparare a moderare l’insensata presunzione di onnipotenza. Ancora freno a tutti orgogli umani, / più odio da Leandro non sofferse / per mareggiare intra Sesto e Abido, / che quel da me perch’allor non s’aperse. Tre passi ci facea il fiume lontani; /ma Elesponto, là ‘ve passò Serse, /ancora freno a tutti orgogli umani, / più odio da Leandro non sofferse /per mareggiare intra Sesto e Abido, /che quel da me perch’allor non s’aperse. (Il fiume ci separava di non più di tre passi; ma l’Ellesponto, là dove passò Serse,il cui esempio è ancora ammonimento per ogni orgoglio umano, non fu più odiato da Leandro a causa delle sue mareggiate tra le città di Sesto e Abido, rispetto a quel fiume perché non mi fece passare.)
PARADISO:
“Molte fïate già pianser li figli per la colpa del padre”: La massima pronunciata da Giustiniano ai vv. 109-110 del canto VI (con matrici bibliche, in particolare dalle Lamentazioni v, 7) ribadisce proverbialmente come spesso i figli debbano pagare per le colpe dei genitori.
“Com’esser può , di dolce seme, amaro”: L’espressione (v. 93 canto VIII) sottolinea la perplessità di chi non riesce a spiegarsi come da buone intenzioni possano sortire risultati pessimi, dal momento che da un semi buono ci si aspetta analoghi frutti. L’incisività della frase sta anche nella contrapposizione tra dolce e amaro.
“O insensata cura de’ mortali quanto son difettivi silogismi quei che ti fanno in basso batter l’ali”: L’apostrofe iniziale del canto XI (vv.1-3) è una drastica condanna di tutte quelle preoccupazioni, soprattutto materiali, che occupano la mente e il cuore dell’uomo e lo costringono in tal modo a “volare basso“.
“Benigno a’ suoi e a’ nemici crudo” : L’espressione al v. 57 del canto XII (che Dante riprende da altri autori cristiani) può essere riferita a quanti sono caritatevoli verso chi ha una condotta corretta e sono, invece, inflessibili con quanti tradiscono le leggi.
“Come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”: Amare parole ( vv.58-60 canto XVII) per rimarcare la condizione di coloro che sono costretti ad affidarsi alla generosità degli altri, a contare sull’ospitalità del prossimo e, per questo, devono sottoporsi all’umiliazione di chiedere.
“Or tu chi se’ , che vuo’ sedere a scranna (…) con la veduta corta d’una spanna?” : L’imperioso richiamo dell’aquila a Dante per il suo dubbio sulla giustizia divina ( v. 79-81 canto XIX) diventa nel registro alto della lingua italiana l’autorevole rimprovero nei confronti di chi intende giudicare i principi e valori assoluti senza averne l’autorità e le conoscenze.
“Non li avria loco ingegno di sofista” : la frase (v. 81 canto XXIV) vuol significare ironicamente che per la soluzione di un certo quesito non è necessario far ricorso a chissà quali cavillosi ragionamenti o a sottili argomentazioni. Si vogliono condannare i sofismi, spesso strumento di mistificazione della verità.
“Mira quanto è ‘l convento de le bianche stole” : L’ espressione con cui Beatrice mostra a Dante la gloriosa rosa dei beati (vv 128-129)ricorre oggi nel presentare con enfasi un qualche oggetto o panorama degno di eccezionale meraviglia.