di CATERINA GIUSTO – L’espressione “villaggio globale”, oggi, è usata frequentemente per fare riferimento al fatto che il mondo, negli ultimi decenni, sia divenuto e stia diventando sempre più interconnesso, grazie ai mezzi di comunicazione di massa e, più in generale, ai processi della globalizzazione. Si tratta, a pensarci bene, di un vero e proprio ossimoro: ciascuno di noi, a sentire il termine “villaggio”, immagina un insediamento umano di dimensioni ridotte, in genere agricolo e privo di una vera e propria organizzazione urbanistica. Che cosa hanno da spartire, dunque, i villaggi alpini, quelli sperduti in una desolata landa pianeggiante o quelli abbarbicati sulle pendici di una collina boscosa con la frenetica evoluzione economica e sociale del nostro pianeta?
Già alla fine del XIX secolo, con la seconda rivoluzione industriale, l’esistenza dei tradizionali villaggi rurali, sopravvissuti per secoli, fu messa a dura prova: le industrie si sviluppavano nelle periferie delle grandi città e il lavoro si spostava dai campi alle fabbriche in misura ancora maggiore di quanto avvenuto nei decenni precedenti con la prima rivoluzione industriale. Da ogni villaggio decine di persone si spostavano nei nuovi quartieri operai, spesso dormitori fatiscenti per le classi sociali più deboli che, pur di conquistarsi un salario che permettesse loro di sopravvivere nel mondo industriale, accettavano qualsiasi umiliazione. I mezzi di trasporto diventavano sempre più rapidi, i ritmi di vita sempre più frenetici e i rapporti interpersonali, per quanto fossero più numerosi dal punto di vista puramente quantitativo, si facevano sempre più anonimi e impersonali, poveri dal punto di vista qualitativo. Nasceva l’economia di mercato, in cui ciascuno contava solo per quello che consumava, con una conseguente uniformità nei comportamenti e nei modelli culturali. Era, in sintesi, l’alba della cosiddetta “società di massa”.
Nel corso del Novecento, tale processo è stato ulteriormente amplificato dall’introduzione di mezzi di comunicazione di massa sempre più innovativi e interattivi: dalla radio alla televisione fino ad arrivare, ai giorni nostri, ad internet e ai cosiddetti social network. La società di massa ha distrutto il villaggio rurale, quello in cui i contatti umani erano profondi e solidali e in cui la partecipazione ai fatti della collettività era costante e reale, per ricostruire sulle sue macerie un “villaggio globale” che ha concesso ad ognuno di noi una cittadinanza tanto ampia quanto illusoria.
Qualcuno potrebbe pensare che tutto ciò sia una realtà ancora limitata alle grandi aree metropolitane, ma non è affatto così. Anche nei piccoli paesi è sempre più raro incontrare bambini o ragazzini che giochino a pallone o a nascondino per strada oppure nei prati o ai margini di un bosco; preferiscono, spesso, stare in casa e sfidare, nei videogiochi online, non solo i loro compagni di classe, ma anche coetanei del tutto sconosciuti che abitano dall’altra parte del mondo. Gli adolescenti, nei rapporti con l’altro sesso, sono sempre più dipendenti dai social: molte ragazze, ad esempio, cercano una realizzazione attraverso la costruzione di un’immagine fittizia di se stesse su Instagram o su Facebook, alla ricerca disperata di like e di una popolarità che vada a compensare i vuoti, reali o percepiti, delle loro vite. Anche molti adulti, ormai, hanno scoperto il mondo dei social media, soprattutto quelli che esistono già da alcuni anni: su queste piattaforme non di rado esprimono il loro parere, talora anche in modo discutibile, sui più disparati argomenti e ciò li fa sentire, inconsciamente, considerati e importanti, come se fossero famosi opinionisti.
Naturalmente, la possibilità di essere in contatto con più persone in tempo reale rappresenta una conquista significativa e non bisogna considerare solo gli aspetti negativi di tale cambiamento sociale. Forse è ancora troppo presto per esaminare con il giusto distacco le conseguenze della “rivoluzione digitale”, i cui effetti più profondi si sono fatti sentire sulla popolazione solo nell’ultimo decennio. Essa rappresenta la fase più avanzata della massificazione della società iniziata oltre un secolo fa ed è coincisa, per di più, con una fase di profonda crisi per il mondo occidentale: le radici identitarie dei popoli e delle realtà locali si sono annacquate nella “modernità liquida”, sempre meno persone fanno affidamento in istituzioni tradizionali come la Chiesa o la famiglia, la stagnazione economica sembra lontana da una risoluzione, molti giovani devono spostarsi in altri stati e abbandonare affetti e certezze alla ricerca di opportunità.
Se l’uomo saprà superare questa fase complessa della sua storia e ritrovare un contatto profondo con la natura, con il proprio “quartiere-villaggio”, con i propri affetti e con la propria anima, allora le potenzialità dei mezzi di comunicazione di massa potranno essere una risorsa valida per ampliare davvero i propri orizzonti in modo consapevole; in caso contrario, esse costituiranno soltanto un illusorio palliativo per sopravvivere nella “gabbia-globo” spersonalizzante di cui siamo prigionieri.