//Chi ha paura della Letteratura?

Chi ha paura della Letteratura?

di | 2021-02-02T20:41:09+01:00 2-2-2021 20:41|Alboscuole|0 Commenti
Di Elena Carbutti – Classi III, sez. L   Lettera ai ragazzi di seconda media dell’anno prossimo“Uffa, che noia!” “Oddio, letteratura!” “Tra poco mi addormento” “Ma la campanella non dovrebbe essere già suonata?!”                                                                                                                                   Ecco i pensieri, espressi a voce alta o meno, degli studenti durante la famigerata ora di letteratura…                                                                                                                                                                             Poesie, sonetti, prose, latino, strutture complesse e un gergo ormai caduto in disuso… questo potrebbe sembrare la letteratura, ad un primo sguardo, quando si apre un tomo corposo e fitto di parole all’inizio dell’anno.                                                                                                                                           Il primo impulso è quello di strabuzzare gli occhi e spalancare la bocca, il secondo è quello di ricontrollare la lista dei libri per fugare ogni possibilità di errore.                                                                   Capisco come ci si sente, ci sono passata anch’io. Solo un anno prima il nostro mondo era stato stravolto dalla nuova scuola, una realtà talmente diversa da quella a cui si era abituati. All’inizio, nel primo quadrimestre, tutto è un chiassoso girare d’occhi, mille cose, mille novità, mille incertezze, sembra di essere in balia di un mare in tempesta, che ti porta di qua e di là e di avere costantemente il mal di mare. E’ normale. Si vuole solo un po’ di stabilità, di normalità, e poi, ecco la letteratura, che come una schiera di nuvoloni, si avvicina e minaccia di agitare ancora il tuo mare.                                                                                                                                                                 Anche il francese, la tecnologia, la storia dell’arte sono state materie nuove, eppure per la letteratura vi è un istantaneo e quasi istintivo timore, misto ad una certa diffidenza. E’ quasi inconscio.                                                                                                                                                                                          All’inizio è paura di non essere in grado di svolgere correttamente la nuova materia, di non riuscire a “cavarsela”, di essere negato o di avere delle difficoltà. Poi, quando queste paure sono fugate (un po’ grazie alla materia stessa, un po’ alle professoresse, che, ormai lo avrai capito, non sono affatto cattive e si rivelano essere delle appassionate del settore) sovviene un sentimento strano, che ti porta ad etichettare la materia come noiosa o obsoleta.                                                                         Bè, se sei tra questi, forse posso aiutarti a capire il motivo di questa avversione istintiva…                                                             Pensiamo a Leopardi o Manzoni o Foscolo, alle loro poesie dense di sentimenti ed emozioni appena celati sotto l’inchiostro e la carta. Cosa hai provato quando ne hai letto uno, dei loro componimenti? Te lo dico io: gli occhi ti si sono forse inumiditi oppure hai avvertito una stretta al petto ed ecco che hai deciso che la letteratura non fa per te. Può sembrare un controsenso, lo so: se qualcosa ti coinvolge a tal punto, perché allontanarlo, temerlo, “disprezzarlo”? E’ un meccanismo di difesa, il medesimo che ci attrae tanto verso i cellulari e lontano dalle persone: si teme di permettere a qualcuno, fosse anche un poeta di duecento anni fa, di entrare nella nostra mente, nel nostro cuore, nei reconditi dell’animo che solo la seta della poesia può sfiorare… Si preferisce tenersi tutto dentro e fare i fighi, indossare una maschera abbagliante dietro cui ci si può facilmente nascondere. Forse funziona con le persone, con gli amici o i compagni di classe, ma non con la poesia, perché la poesia è un frammento di cuore, inchiostro di sangue su pagine di carne, pensieri indelebili su pagine infinite, è della medesima materia di ciò che cerchiamo di nascondere e pertanto non ha bisogno del consenso o dell’approvazione per unirsi ad essa e piano, con una sconcertante delicatezza, tirarla fuori, attraverso lacrime, di gioia o di disperazione, sorrisi, urla, punti che saltano da ferite mai del tutto rimarginate. La poesia è contemporaneamente una carezza materna sulla testa e uno schiaffo paterno in pieno volto, forza le barriere dei nostri pensieri, viola la nostra intimità, quella spirituale più complessa e importante e intima di quella fisica, rompe gli argini di sentimenti soppressi. Noi siamo abituati a non provare niente, è preferibile: superficiale facciata serena sopra tumulti inimmaginabili, ricacciati sempre più in fondo, le cose brutte come quelle belle, parole di rabbia e di amore che mai diremo, per non soffrire, ma forse anche… per non gioire? E’ questa la nostra società, a cui la poesia, però, mai si rassegnerà.                                                                                                                                                                Orami lo avrai capito: io adoro la poesia, eppure non sempre me lo ricordo. Non la sopporto quando mi sussurra di provare dolore, perché senza il dolore non ci può essere nemmeno la gioia, quando rompe, strappa, fa a brandelli il velo di superficialità e disinteresse dove mi nascondo per sfuggire al troppo soffrire; mi costringe a versare lacrime e a disperarmi, ma anche a ridere e a calmarmi. La poesia offre un analgesico diverso dalla potente morfina dell’indifferenza, è la camomilla calmante di un dolore destinato a sopirsi prima o poi.                                                                              Lo so, tu hai solo 12 anni e ti starai chiedendo che cosa sto dicendo, perché ti faccio un discorso così tremendamente “adulto”. Lo capisco, io ne ho solo 13, di anni, non sono tanto più grande di te, e ti parlo così, in modo talmente complicato, perché la realtà è complicata, le persone sono così assurdamente e splendidamente complicate e la letteratura e la poesia, che ne sono il più nitido riflesso, non potrebbero esserlo di meno. Tutto è complicato, perciò come posso io parlartene in modo semplice? Non mi sembra giusto imbastire due frasi di circostanza oppure fare opera di propaganda descrivendoti la realtà della letteratura come un mondo semplice e bello… Sto cercando di dirti la verità o almeno quella che io sento come tale, perciò prova a leggerlo tutto, anche se è così lungo, questo discorso e, se hai tempo, spendici due minuti per cercare di capire, sotto la patina di parole, i sentimenti e le emozioni che voglio comunicarti.                                                    La nostra società, ancora più dopo la situazione che abbiamo vissuto (spero che il Coronavirus sia ormai acqua passata quando leggerai questo), è sempre più costituita da persone-isola, le une lontane dalle altre, separate da acque, muri, circostanze. Per questo è importante studiare autori lontani… poiché raccolgono la memoria di tempi passati e si tratta di una memoria lontana dall’oggettività storica, si tratta di una memoria soggettiva, personale, difficile, di molteplici interpretazioni, incerta, a volte incomprensibile e sempre perfetta nella sua imperfezione. Prediamo per esempio, la poesia “Alla sera” di Ugo Foscolo: la mia frase preferita è “Vagar mi fai co’ miei pensieri su l’orme/ che vanno al nulla eterno”, in cui la sera porta Foscolo a pensare alla morte… Di sicuro capita di pensare alla morte e quasi sempre con paura o timore, immagina però il quadro descritto da Foscolo: una calma dolce e soave, una lentezza anelata, contrapposta alla freneticità della vita, le palpebre che si abbassano, come nel sonno, e il respiro sempre meno greve, il dolore sempre meno acuto, il conforto della fede indissolubile in quel Dio lontano e un ultimo saluto. Confortevole non è vero, così lontano dall’angoscia abitudinaria? Te l’ho detto, la poesia può essere un grande conforto, poiché viene da persone imperfette, normali, che semplicemente sono andate oltre l’apparenza delle cose.                                                                        Un altro autore che non posso non citare è Leopardi, con due poesie (perdonami, ti assicuro che non lo faccio per sadismo nei tuoi confronti, ma solo perché ci tengo a darti l’immagine più completa possibile di questa meravigliosa arte) “L’Infinito” e “A Silvia”.                                                              Per quanto riguarda “L’infinito”, tanto cara mi è la frase “Così tra questa/ immensità s’annega il pensier mio: / e ‘l naufragar m’è dolce in questo mare.” Naufragare indica solitamente qualcosa di negativo, la perdita del controllo, l’andare alla deriva. Ecco, noi siamo fanatici del controllo e odiamo quando le cose sfuggono di mano, però non si possono controllare le emozioni. In questo caso Leopardi ci parla del soave lasciarsi andare, il lasciarsi sommergere dalle emozioni, dalle sensazioni, dai sentimenti, dimenticandoci di razionalità, contegno, allentando la presa su controllo e realtà, prendersi il tempo di analizzare i propri sentimenti, di provarli, di cercare di capirli e anche di esternarli.                                                                                                                                             Della poesia “A Silvia” invece mi piace particolarmente questo periodo “Quando sovviemmi di cotanta speme / un affetto mi preme / acerbo e sconsolato, / e tornami a doler di mia sventura.”: così Leopardi esprime la fine delle speranze, la lontananza, la nostalgia, la sofferenza. Anche questo è la vita. Mi piace così tanto soprattutto per le sensazioni che suscita: leggila e dimmi: senti anche tu quel dolore lacerante, le lacrime salate sulle guance e le gocce di sangue che gocciolano sul terreno, il respiro che si impiglia nella gola? Eppure tutto questo è espresso con una dolcezza, una grazia, che rendono meravigliose anche queste sensazioni. Ogni volta che la leggo provo la sensazione fisica di infinito pianto trattenuto da argini di carta e inchiostro, come se sotto di esse, accostando l’orecchia alla pagina possa sentire le dighe di emozioni incresparsi e agitarsi, fino a rompersi definitivamente.                                                                                                                                     La poesia è anche questo: un incantesimo con cui si confina tutto il proprio dolore in una pagina e se viene fatto bene tutti possono sfiorarlo, provarlo, sentirlo.                                                              Pertanto dalle una possibilità e sono sicura che non te ne pentirai. Leggila quando stai male, alienati dal mondo per un po’ per prepararti a viverci per tutta la vita letteralmente in mezzo, trova nella letteratura un conforto e un aiuto, uno sfogo, un’amica o un amico con cui parlare, sulla cui spalla piangere.                                                                                                                                               Mi scuso ancora se ti ho annoiato e ti auguro buona fortuna…