Di Rosaria di Ruvo
Ho da poco finito di leggere Cecità del premio Nobel portoghese Josè Saramago ed è come se mi si fosse creata intorno una specie di voragine: un distacco da quella che era la mia visione della vita prima della lettura di questo libro, un fossato che mi allontana e mi isola da tutto e tutti, anche da quelli che hanno letto lo stesso libro, ma che come i ciechi del romanzo, sono in grado di condividere fino ad un certo punto l’esperienza della cecità. Si rimane nel proprio guscio di solitudine a ripensare, riconsiderare, rivedere a tentare in qualche modo di sublimare l’esperienza devastante che è stata questa lettura, arrivando all’unica conclusione che noi tutti non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo. Ciechi che, pur vedendo, non vedono.
Fin dall’incipit si comprende che nessuna consolazione sarà concessa al lettore. non c’è nessun allontanamento temporale e spaziale, nessun C’era una volta, in un paese lontano. C’è invece Il disco giallo si illuminò. Si scoprirà dalla fase successiva che il disco giallo non è il sole che risorge, portatore di luce e di vita, ma è quello di un semaforo che sta per dare il via a delle automobili pronte a scattare grintose lungo le strade di una città ignota. Città che non sarà mai nominata e che di conseguenza diventa la realtà urbana di qualsiasi latitudine terrestre, anche la mia. All’improvviso, a questo semaforo, qualcosa si intoppa. Una macchina resta ferma perché l’autista scopre di essere diventato cieco: di essere cioè immerso in una sorta di cecità bianca che gli impedisce di compiere qualsiasi tipo di azione. Qualcuno lo accompagnerà a casa sua, una casa che farà fatica a riconoscere e che lo ferirà, in compagnia di sua moglie si recherà all’ambulatorio di un oculista, dove il medico non riuscirà a fare nulla se non prendere del tempo.
È l’inizio del contagio. Da quel momento in poi tutti quelli entrati in contatto con il primo cieco diventeranno ciechi a loro volta. Una cecità che si propaga all’umanità come la colpa che si propagò dal primo uomo. Il governo, non sapendo esattamente cosa fare, tratterà questa nuova epidemia come una malattia da tenere rinchiusa tra i corridoi labirintici di un manicomio in disuso, con dei soldati a sorvegliare quei ciechi e ad impedire loro di uscire di lì. È fatta promessa di razioni di cibo e di venir incontro alle varie richieste legate all’igiene personale. Igiene personale difficile da mantenere in un luogo dove dei ciechi potrebbero raggiungere solo fortuitamente delle fonti di acqua, ammesso che ce ne siano.
Lo scenario che Saramago descrive all’interno del manicomio è ovviamente uno scenario catastrofico, ma uno scenario che il lettore intuisce facilmente essere tipico di qualsiasi assembramento coatto di esseri umani, siano essi campi di concentramento o campi di raccolta. Tutto quello che accade nel manicomio sarà raccontato attraverso l’esperienza diretta del primo gruppo di uomini divenuti ciechi: il primo cieco, l’oculista, una paziente giovane dello stesso oculista, il primo uomo, sua moglie, l’uomo che riaccompagna a casa il primo uomo, un ragazzino strabico, anch’esso paziente dello stesso oculista, l’oculista e sua moglie. C’è una sola persona che non perde la vista ma la mantiene per tutto il tempo della narrazione. È la moglie dell’oculista. Saranno i suoi occhi a trasferire tutte le oscenità che accadono nel manicomio e porre davanti agli occhi di chi legge la brutalità dei rapporti di forza che inevitabilmente si creeranno all’interno di quel labirinto. Rapporti di forza che riecheggiano quello che abitualmente vediamo avvenire tutti i giorni intorno a noi. Si pensi al rapporto di forza tra scafisti e migranti clandestini di questi tempi osceni, in cui un ristretto gruppo di “ciechi” dotati di armi tiene sotto scacco un gruppo più ampio deprivandoli di tutti i loro averi e della dignità. Per non parlare del rapporto di forza che si va a definire tra genere maschile e femminile, dove tutte le opinioni sulla dignità della donna sono appunto solo opinioni, la realtà è che se si vuole sopravvivere, se anche i rispettivi mariti delle donne cieche presenti nel manicomio vogliono sopravvivere, le donne devono sottomettersi a qualsiasi tipo di brutalità sessuale e accettare di essere solo riconosciute come tali per la libidine che da esse i ciechi armati possono trarre. Questo richiama alla mente molte cose della nostra società civile: tutte le brutalità a cui sono sottoposte le donne: lo sfruttamento della prostituzione dove le donne schiave si suppone siano in un numero nettamente superiore rispetto a chi lo fa volontariamente; le donne usate come punch ball dai rispettivi mariti, brutalizzate e uccise; gli abusi sessuali di cui sono vittime i tanti bambini del mondo, perché l’idea della donna sottomessa alla forza brutale dell’uomo vale per tutti i deboli, non solo di genere femminile, della terra.
Solo un fuoco purificatore e relativa vittima sacrificale, collocata non sopra una pira ma sotto, riuscirà a riportare fuori dal manicomio i protagonisti della storia. Ma a loro sarà vietata la sensazione di famigliarità con i luoghi della loro vita precedente, perché nel labirinto demenziale della città (…) la memoria non servirà a niente, poiché riuscirà solo a mostrare l’immagine dei luoghi e non le vie per arrivarci.
La città non ha più l’organizzazione sociale di un tempo. Quello che apparteneva prima ad alcuni come le case, ora è rifugio momentaneo di altri. Le famiglie sono state sostituite da gruppi di ciechi che rimangono insieme per opportunità, perché in gruppo forse si riesce a sopravvivere meglio. Le vie sono delle cloache a cielo aperto dove si ammucchiano cumuli di immondizia, di escrementi umani e di cadaveri. Anche i morti perdono la loro dignità. Nessuno è in grado di seppellire nessuno, e gli antichi legami sono solo uno sbiadito, inutile ricordo di un passato che non è più in continuità con il presente. La città ora è una realtà che può essere solo percepita attraverso il tatto, l’udito e l’olfatto. È immersa in un fetore immondo e nelle inutili chiacchere di ciechi che si scambiano opinioni vuote e sterili su qualsiasi cosa, ma non sulla possibilità di organizzarsi nuovamente, diversamente, unica cosa che interesserebbe davvero tutti. Ed anche in questo c’è un inevitabile parallelismo con questa società di vedenti normo dotati, in cui tutti sono in grado di dare eco alle proprie opinioni attraverso profili sui social, di dare sfogo alla propria rabbia, alla propria frustrazione sputando veleno su di una realtà complessa e multiforme. Una realtà problematica che tuttavia si fa fatica a leggere, accecati come siamo dai nostri pregiudizi, dalla nostra ignoranza, dalla non voglia di sforzarsi di voler guardare le cose per quello che sono, dalla paura che si può avere di lasciarsi coinvolgere in situazioni di degrado e di sofferenza. Abituati come siamo a negare le nostre emozioni di fronte alle inquadrature sugli infiniti scenari del dolore umano a cui i notiziari ci sottopongono più volte al giorno, non ci rendiamo conto di essere diventati dei ciechi che pur vedendo non vedono.
La scrittura di Saramago invece chiude tutte le porte al sentirsi estranei ed indifferenti rispetto a quanto viene narrato. È una scrittura che trascina all’interno del labirinto, in cui la sofferenza umana non viene semplicemente mostrata, ma la si sente sotto pelle; ci guida in una realtà del tutto incomprensibile, una realtà in cui qualsiasi sistema di razionalizzazione fallirebbe e dove solo la condivisione e la reciprocità più intima e più sofferta vince. La scrittura di Saramago non ha pause, non ha capitoli, ha una punteggiatura tutta sua, come ad esempio la mancanza di segni di interpunzione nel passaggio dal discorso indiretto a quello diretto, una scelta questa che destabilizza il lettore nelle sue confortevoli abitudini di fruizione del testo e che non lascia respiro. È un unico blocco: una specie di cappa che cade addosso a chi legge e da cui si esce con difficoltà. È proprio questo carattere della scrittura a rendere un topos così antico come quello della cecità, narrato già migliaia di anni fa da Omero con la storia dei ciclopi, estremamente attuale e prossimo all’esperienza di chi ha la sventura di addentrarsi in questa storia di ciechi.
Cecità è un libro che destabilizza e obbliga chi legge a resettare le proprie categorie di giudizio; a ripensarsi come essere pensante e umano, e a intraprendere un cammino di comprensione delle umane vicende che tenda a non escludere la propria gamma di emozioni, ma, anzi, ad utilizzarle come una guida.