di BRUNO TOSCANO, 5 AP – IIS. G. da Catino di Poggio Mirteto
Sono passate poco più di due settimane dalla strage – 49 morti e 48 feriti – in due moschee di Christchurch in Nuova Zelanda, compiuta da un ventottenne australiano di nome Brenton Tarrant, che ha filmato tutto e messo sul suo profilo Facebook, visto da migliaia di persone.
L’idea è semplice e si dovrebbe partire da qui per trovare soluzioni. Questa è soltanto una base, tra l’altro misera, da cui secondo me bisogna partire nel giudizio di questi avvenimenti.
Parto dall’idea che quando diciamo ‘io’ in realtà stiamo indicando tutto ciò che abbiamo assorbito, appreso, imparato, osservato, visto, sentito, assodato, assaporato dall’ambiente in cui siamo passati, da quando siamo nati ad oggi.
Per ambiente intendo casa, famiglia, amici, insegnanti, scuola, paese, città, televisione, radio, parenti. In ogni ambiente esistono dei vettori: libri, telefono, televisione, comportamenti, toni di voce, modi di dire e fare, idee. I vettori trasportano messaggi che possono essere più o meno espliciti, accolti o ignorati in base a quanto abbiamo assorbito in precedenza.
L’ambiente in cui nasciamo non lo scegliamo noi, e si può dire, senza stare li a lambiccarsi il cervello sulla causalità o casualità delle cose, che sia un caso. Di conseguenza derivano dal caso i vettori che ci circondano, le informazioni che assorbiamo e le azioni che compiamo.
Quando compiamo una scelta abbiamo nella nostra testa, tra le tante cose assorbite, anche un fumoso e sovrimpresso concetto di quanto è giusto o è possibile fare. Quanto ci spetta, cosa ci è concesso e cosa dobbiamo fare. Quanto le nostre azioni siano più o meno giustificate e giustificabili.
Se questo vale per tutti, mafiosi, nazisti, paranzini, assassini (quei ragazzi adolescenti che controllano alcuni quartieri di Napoli) stragista Neozelandese compreso (colui che ha ucciso, nel mese di marzo 2019 , 50 persone in due moschee), allora nelle stesse identiche condizioni in cui si è formato lui, forse sarebbe diventato stragista chiunque di noi. Pertanto egli ha sì la colpa di aver ucciso quelle persone, ma lo ha fatto perché si è formato con certe idee. Quindi il problema non è lui in sé per sé – e badate che questo non è in alcun modo un tentativo di giustificarlo o difenderlo – ma è un modo per riflettere sul fatto che l’ambiente è assolutamente determinante nella formazione di una persona.
Osservo, inoltre, che se tu lettore la pensi in un certo modo è per i motivi già detti. Se pensi che uccidere 50 uomini sia da pazzi, e quindi non giusto, dal tuo punto di vista hai perfettamente ragione e non poi essere giudicato pazzo. Se lo stragista, però, la pensava in un certo modo è per gli stessi tuoi motivi, ovvero perché come te ha assimilato idee dall’ambiente in cui si è formato. Se ha agito, perciò, pensando che fosse giusto e doveroso da parte sua farlo, egli non è da considerarsi pazzo esattamente come te. Da ciò ne segue che non fu pazzo Hitler e i suoi collaboratori, come non fu un pazzo Binladen, e come non fu un pazzo Milosevic.
Ammesso questo, ne segue una riflessione sulla pena.
La pena di morte non risolve il problema. Ucciso lui, restano l’ambiente, i vettori e i messaggi che lo hanno formato e questo vale non solo per lo stragista, ma per chiunque compia azioni illegali. Allora ne segue una triplice soluzione:
1 – Punire sì il detenuto, ma deve essere una punizione accompagnata da un programma di rieducazione (per tutti i motivi detti).
2 – Bonificare quegli ambienti e quei vettori dai messaggi che hanno formato la persona in questione.
3 – Formare persone in grado di non farsi influenzare da questi messaggi, fornire quindi alle persone gli strumenti adeguati a tale scopo.
Non sempre la scuola e lo Stato si dimostrano efficaci nel fare ciò, e a ragion veduta, poiché spesso la scuola è vista con occhio svalutativo dallo studente, o perché non sempre gli insegnanti sono consapevoli della responsabilità enorme che hanno nei confronti della società o perché un intervento in una determinata zona può rivelarsi più difficile del previsto.
Devono, quindi, essere insegnati e applicati altri atteggiamenti che i cittadini possano diffondere autonomamente nella quotidianità, senza i quali sarà difficile raggiungere obiettivi più elevati di quelli già ottenuti (ad oggi non è creanza ammazzarsi per strada ad esempio).
1- La cittadinanza attiva. Quell’idea per cui i problemi non vanno semplicemente delegati agli eletti, ma vanno discussi e analizzati criticamente con le adeguate informazioni e vanno cercate insieme soluzioni da proporre.
2 – Il dibattito come momento di costruzione collettiva. Come momento in cui si stabilisce, argomentando, cosa per noi è giusto e cosa non lo è. Quel momento in cui si è costretti ad ascoltare l’altro e si è costretti ad elaborare un pensiero complesso e ad essere informati per poter rispondere in maniera esaustiva ad una domanda, un commento o a quanto non ci sembra giusto nelle parole di qualcuno. Un momento in cui così facendo si crea un fronte comune di valori e di idee, una coscienza comune in grado (questa è la speranza) di individuare ed eliminare le idee dannose, e di aiutare gli altri a fare un passo in avanti nella loro visione delle cose.