//L’inetto: l’incapace a vivere

L’inetto: l’incapace a vivere

di | 2018-06-07T08:01:16+02:00 7-6-2018 0:46|Alboscuole|0 Commenti
di DANIELA RULLO – A partire dal XIX secolo, la società occidentale, toccata da importanti scoperte nell’ambito tecnologico, si rinnova completamente per mezzo dell’economia e dell’industria. La creazione di beni, resa più efficiente dall’uso delle macchine e dalla razionalizzazione della produzione, diviene maggiormente legata al capitale, che, concentrato nelle mani di poche società, non solo fa scomparire la figura dell’imprenditore indipendente ed individualista, ma anche quella del piccolo proprietario o artigiano, provocando l’impoverimento della classe media e la formazione di un ceto impiegatizio, costretto ad un lavoro monotono, arido ed opprimente, che nausea come prendere “troppo di un sol cibo”. Tale ceto affronta la nascita, provocata da una comunicazione veloce e dalla produzione in vasta scala, della cosiddetta “società di massa”, caratterizzata dall’omologazione, dalla perdita dell’autonomia individuale e dalla scomparsa del singolo, che, non più artefice del proprio destino, entra in crisi. Questa realtà si fonda su nuovi ideali: il progresso, la produttività e il profitto. Tali idee si traducono nel rifiuto, da parte della società, dell’arte non massificata e l’intellettuale diviene un reietto, inutile perché non produttivo. Non resta che reagire, rendendo l’arte uno strumento della modernità, ponendosi al di sopra di tutto, o assumendo un atteggiamento di ostentato anticonformismo. Ma la frustrazione dell’intellettuale si codifica nella figura dell’inetto, l”ineptus”, il non adatto alla vita. Tra gli autori che hanno analizzato la caratteristica dell’inettitudine, risalta Italo Svevo, che, a differenza di quanti lo hanno preceduto, non solo ritrae la condizione psicologica di coloro che soffrono di questa incapacità, ma ne individua anche le radici sociali. I protagonisti delle sue opere più importanti “Una vita” (1892), “Senilità” (1898) e la “Coscienza di Zeno” (1923), sono accomunati innanzitutto dall’incapacità di decidere, infatti come già scrive Leopardi nel 1821: “È cosa evidente […] che gli uomini di maggior talento sono i più difficili a risolversi […]; i più incerti, i più barcollanti e temporeggianti, i più tormentati da quell’eccessiva pena dell’irresoluzione; i più inclinati e soliti a lasciar le cose come stanno; i più tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado l’utilità o necessità conosciuta. E quanto è maggiore l’abito di riflettere e la profondità dell’indole, tanto è maggiore la difficoltà e l’angustia di risolvere”. Pertanto sono proprio le qualità intellettuali dell’inetto a condurlo verso un continuo studiarsi e osservarsi, fermandone l’azione e isolandolo, allontanandolo dalla vita, che, non vissuta ma osservata, è irraggiungibile anche a causa della goffaggine nei rapporti interpersonali. Ciò nonostante l’intellettuale, rappresentato nelle figure di Alfonso Nitti e Emilio Brentani, continua a nutrire il proprio cervello, un “essere inutile”, “passando ore intere a tavolino” con lo studio della letteratura e della filosofia, opponendosi all’idea di forza virile, che ne causa l’esclusione dal meccanismo brutale della lotta per la vita, poiché: “Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare o anche inabili a tenere”. L’inetto è escluso da questa lotta e, perdendo in partenza, è costretto a “guardare” quanti, con le giuste doti, si esprimono nell’azione. Egli avverte la sua “inferiorità”, ma decide di creare una realtà diversa, in cui rappresenta sé stesso attraverso le immagini fittizie dell’uomo virile o del letterato, privilegiato nello spirito. Ad esempio Emilio tenta di indossare, con la donna amata, le maschere del “libertino” e dell’“l’uomo navigato”, rappresentandosi come un uomo “immorale superiore”, ma queste “maschere” sono supportate solo da alibi e autoinganni, che crollano inevitabilmente dinnanzi alla realtà, in cui egli non solo è un romantico sentimentale, schiavo del moralismo tradizionale, ma manifesta, nonostante il socialismo professato, un aristocraticismo classista. In ciò si manifesta il carattere “malato” dell’inettitudine, che spinge i personaggi a seguire degli stereotipi, causando la degradazione dei temi culturali del tempo, e a rifiutare i falsi miti della società borghese, rendendoli “prince des nuées”, adatti solo a “voli poetici”. Tuttavia nella “Coscienza di Zeno” emerge il carattere “sano” dell’inettitudine, poiché l’eroe inetto è un “abbozzo”, il più disponibile al cambiamento. I veri malati sono i borghesi, poiché prigionieri dei propri valori. Infatti cos’è la malattia se non parte integrante del falso progresso? La “vita attuale è inquinata alle radici”, perché la salute “non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo”, infatti l’uomo, affidandosi completamente a ordigni che non hanno più niente a che fare con l’arto, fa sparire la legge del più forte. La “salute” tornerà solo per mezzo della distruzione del mondo.