di STEFANIA MIGLIOZZI – Edith Bruck, scrittrice di origine ebrea, nata in un villaggio ungherese ai confini dell’Ucraina e sopravvissuta ai campi di sterminio dov’era stata condotta da bambina, si è stabilita in Italia nel 1954 e rappresenta una delle poche testimoni dirette sopravvissute alla tragedia della Shoah. Nel suo breve romanzo “Lettera alla madre”, medita sul mancato senso della vita e sull’impossibilità di tornare a vivere dopo le atroci sofferenze di Auschwitz.
Il racconto, però, a differenza delle opere di Levi, di Pahor o di Imre Kertész, non si concentra sulla vita nei campi di concentramento o sulla tragedia dell’Olocausto, ma è, dall’inizio alla fine, una dolente meditazione sul mancato senso della sopravvivenza ad Auschwitz e alla deportazione, con la vivida e corporea consapevolezza del Male Assoluto, che non si può cancellare né consolare in nessun modo. Edith infatti, non essendo religiosa, si scontra apertamente con la madre e, dopo l’esperienza del lager, fatica ancor di più a credere in Dio.
La scrittrice in un’intervista ha parlato di come “cinque luci nel buio”, ossia cinque rari e piccoli grandi gesti durante la sua prigionia, l’abbiano aiutata a non sentirsi sempre e solo un numero e le abbiano permesso di riuscire a scampare per un soffio alla morte e alle selezioni di Mengele, senza però distoglierla successivamente da un’attrazione costante per il suicidio.
Così Edith scrive alla madre per esprimerle, senza reticenze e autocensure, tutto quello che avrebbe voluto dirle se anche lei fosse sopravvissuta ad Auschwitz, provando a instaurare un impossibile dialogo post mortem. Ma non si tratta di un semplice sfogo sentimentale verso una madre che non c’è più, è, invece, un groviglio di sentimenti e ideali contrastanti, come la sua meditazione sull’assenza di qualsiasi aldilà, il mito ebraico, l’infanzia di stenti in Ungheria; è un miscuglio di amore e rabbia. «Da quattro anni eravate in attesa dell’alba fatidica. Quattro anni di notizie di massacri nuovi, inarrestabili, mentre ci guardavate crescere per niente, per morire. (…) Se sapevate che eravamo condannati perché non eravate più dolci, più amorosi, più permissivi, con noi figli vittime innocenti?», così Edith, sia come bambina che come adulta, con il suo atto d’accusa più grave, che suona implacabile, si mostra severa, critica e talvolta aggressiva nei confronti della madre. Questa, infatti, viene accusata di aver trattato con rudezza la figlia sin da bambina e di non aver mai compreso e rispettato la sua vera natura, volta a un laico e razionale scetticismo, a un gioioso e libero rapporto con la natura, con gli animali, con i propri simili, soprattutto se “diversi”.
La scrittrice rimprovera la fede fanatica della madre che spesso l’aveva resa distante e cieca di fronte alle richieste d’amore e d’attenzione della figlia. Ricorda anche con quanta autorità sua madre provava a imporle la propria visione del mondo e dell’esistenza in ubbidienza al credo ebraico e di come trascurasse la sua passione per i libri, per le poesie, e la sua ricerca incessante di distinguersi attraverso l’arte e la cultura. Accanto alla figura della madre, Edith rievoca anche quelle di familiari e amici, senza creare mai confusione e mantenendo fisso il suo punto di vista.
In una delle sue ultime interviste ha affermato: “Non odio e non odierò mai i tedeschi, nemmeno se incontrassi oggi l’autore materiale dell’omicidio di mia madre”. Con queste parole, Edith Bruck ha trasmesso un grande messaggio di umanità e di speranza: odio e intolleranza vanno banditi, nella storia come nella vita di tutti i giorni.
L’avviso è rivolto soprattutto ai giovani in Europa, visto l’avanzamento, giorno dopo giorno, di derive nazionaliste, populiste, vere e proprie espressioni di gruppi nazi-fascisti organizzati in strutture paramilitari, alimentati da sentimenti xenofobi, antisemiti. Oggi, presi di mira però sono soprattutto rifugiati e migranti; sorte fino a pochi anni fa riservata a rom e sinti. “Queste nuove forme d’intolleranza ci ricordano quanto in Europa si stia creando una “scia” pericolosa, per tutti, non solo per chi fugge da guerre e persecuzioni, ma per tutti coloro che sono considerati diversi”, ha affermato in un’intervista, “e dal momento che siamo fortunatamente tutti diversi l’uno dall’altro, nessuno sarà immune”. Ricordiamoci però che anche nel male può accendersi la scintilla del bene, una piccola luce nella disperazione, proprio come quelle “cinque luci” che aiutarono la donna a sopravvivere.