Nell’ultimo mese abbiamo tutti quanti posto particolare attenzione a ciò che stava accadendo in America. Infatti, il 3 novembre si sono svolte le elezioni presidenziali degli Stati Uniti d’America per scegliere il nuovo presidente.
Il sistema elettorale statunitense è un sistema indiretto, infatti il presidente non viene eletto direttamente dagli elettori ma dai membri del Collegio Elettorale (definiti grandi elettori), coloro che effettivamente vengono eletti direttamente dai cittadini di ciascuno stato dell’Unione. Ogni Stato ha a disposizione un certo numero di seggi del collegio che varia e aumenta in base alla popolazione del singolo stato (Infatti stati grandi e popolosi come il Texas o la California hanno un numero dei seggi altrettanto alti, rispettivamente 38 e 55, mentre stati meno popolosi come il Montana e il Nevada hanno a disposizione molti meno seggi, 3 e 6). Le elezioni si svolgono individualmente e con i tempi locali in ogni stato e seguono la filosofia del “winner takes all”, ovvero un sistema maggioritario secco in cui il candidato che vince, anche di un solo voto, otterrà la totalità dei seggi del collegio a disposizione di quello stato. Il numero totale dei seggi del collegio è 538, quindi un candidato per avere la maggioranza assoluta ed essere dichiarato presidente ha bisogno di almeno 270 grandi elettori. La situazione politica statunitense però ha da sempre garantito ai candidati di un preciso partito un certo numero di stati a favore, infatti, stati come l’Arkansas o il Montana hanno un contesto culturale e storico che li assicura ai repubblicani, mentre stati come la California o l’Oregon ai democratici. Questi tipi di stati vengono definiti in gergo “safe states”. Al contrario esistono alcuni stati che non hanno un contesto storico-culturale tale da essere definiti “sicuri”, questi stati si sono spesso ritrovati ad assegnare i propri seggi al collegio, a nessun partito in particolare. Questi stati vengono definiti “swing states” e sono, durante la campagna elettorale, il principale campo di battaglia tra i due candidati, infatti è in questi stati che i partiti spendono di più in propaganda e comizi e, spesso, alcune elezioni sono state vinte solo ed unicamente grazie alla conquista strategica di pochi di questi stati.
Queste elezioni però, contrariamente alle precedenti, sono state protagoniste di particolari avvenimenti che le hanno caratterizzate. Il primo è stato la forte partecipazione dell’elettorato, una delle più alte del secolo, un dato molto positivo in quanto denota una forte coscienza democratica, per contro il rovescio della medaglia è il dato diffuso dagli analisti, ovvero che questa affluenza è sostenuta soprattutto da una forte opposizione alle scelte di Trump in relazione agli inefficaci provvedimenti nei confronti dell’emergenza sanitaria, per cui sarebbe il forte clima di insoddisfazione e un comportamento rancoroso e populista ad aver prevalso. Il secondo avvenimento è stato di maggiore importanza e riguarda l’esistenza della pandemia, in quanto ha influenzato profondamente la scena politica americana. In nessuna nazione l’argomento Covid è stato politicizzato ed estremizzato come in America. Argomenti come le contromisure minori ed il lockdown sono diventati dei veri e propri punti del programma elettorale riuscendo ad arrivare al paradossale punto in cui anche solo indossare una mascherina “è da democratici” mentre il non farlo o il minimizzare l’emergenza “è da repubblicani”. Questa effettiva polarizzazione della scena politica ha modificato persino il modo stesso di votare, incentivando gli elettori democratici all’uso di uno strumento di voto più “anti-covid” quale è il voto via posta. Infatti, questo argomento è stato protagonista del dibattito pubblico prima, durante e dopo queste elezioni in quanto additato dal presidente uscente Trump come manipolabile.
In questo contesto il 3 novembre si sono aperte le urne, dando il via alle elezioni presidenziali 2020 degli Stati Uniti d’America. I due principali candidati sono Donald Trump per il Partito Repubblicano e Joe Biden per il Partito Democratico. Donald Trump è un imprenditore particolarmente conosciuto per il carisma e le posizioni conservatrici, oltre che per vari processi che ha affrontato. Infatti, nonostante in America per le industrie di alto livello le contese legali siano all’ordine del giorno, Trump ha stracciato ogni record, venendo coinvolto, lui e i suoi affari, in almeno 3500 cause sia civili che penali,un numero senza precedenti per un candidato alle presidenziali statunitensi e ri-candidato (giacché eletto 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America nel 2016). Joe Biden invece è un avvocato, progressista moderato, ex senatore per il Delaware fino al 2009 e 47esimo vicepresidente degli Stati Uniti con l’amministrazione Obama. Insignito della medaglia presidenziale della libertà con lode nel 2017 aveva, all’esaurimento del mandato presidenziale di Obama, rinunciato a candidarsi alle presidenziali del 2016 per via della morte prematura di suo figlio Beau Biden per un cancro al cervello, appoggiando di fatto la candidatura di Hillary Clinton nelle primarie del partito democratico. Dopo aver rinunciato alla candidatura è stato nominato professore all’università della Pennsylvania e ha contemporaneamente guidato il Penn Biden Center for Diplomacy and Global Engagement. Il 25 aprile 2019 però, con la pubblicazione di un videomessaggio antirazzista, in cui attacca duramente il presidente Trump, ha annunciato ufficialmente la sua candidatura alle primarie democratiche in vista delle elezioni presidenziali del 2020 inaugurandola con un primo comizio a Philadelphia in Pennsylvania.
Dopo alcuni giorni dall’apertura delle urne avvenuta il 3 novembre il conteggio dei voti era già iniziato in vari stati ma la situazione era ancora incerta e la vittoria combattuta, fino a quando non si è arrivati in una situazione di stallo in cui i soli stati del Nevada, Michigan, Georgia, Arizona, North Carolina, Pennsylvania e Wisconsin avrebbero decretato il vincitore. Infatti, nonostante un iniziale vantaggio di Trump negli stati più popolosi tra questi, il conteggio dei voti via posta ha favorito un recupero ed un conseguente distacco di Biden che alle 17:25 del 7 novembre grazie alla vittoria in Pennsylvania, Wisconsin, Michigan e Arizona riesce ad assicurarsi i 270 grandi elettori e, come osservato e affermato dalle principali testate giornalistiche del paese, viene dichiarato il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America.
Il presidente uscente Donald Trump però, non ha accettato l’esito del conteggio dei voti e, nonostante sia le testate giornalistiche (anche quelle pro-Trump) che gli osservatori internazionali dichiarassero il contrario, ha affermato in diretta dalla Casa Bianca di aver vinto le elezioni e che i voti via posta, responsabili del vantaggio di Biden, siano in realtà dei voti “illegali” e falsificati, architettati da una serie di persone e associazioni poco definite che, secondo questa narrazione, hanno interesse nel destituirlo. Durante tale diretta però, tre delle cinque principali testate giornalistiche del paese hanno interrotto il servizio, dissociandosi dalle dichiarazioni del Presidente e denunciando una deriva antidemocratica e complottista del discorso. Le altre due testate invece, hanno continuato a trasmettere la diretta ma specificando, in basso, a caratteri cubitali che ciò che affermava il Presidente non era supportato da nessuna prova o documento e, che lo stesso Trump, non ne avesse portato nessuna, prendendo quindi anche loro distanza dal discorso. Nonostante questo, Trump, continua la sua battaglia, venendo però, piano piano, abbandonato da quasi tutti i suoi fedeli, a partire dalle testate schierate, passando per i tesserati (anche gli estremisti) del partito repubblicano, e finendo con gli stessi membri della sua famiglia. Non sono infatti poche le voci di corridoio che vedrebbero sua figlia, Ivanka Trump, provare a convincerlo a mollare l’osso e riconoscere le elezioni. Questo però non sembra far desistere il Presidente, che ha avviato battaglie legali in vari stati, con l’obiettivo di avere l’autorizzazione a fare ricorso alla Corte Suprema. Essa, infatti, è l’unico organo ad essere l’effettivo ago della bilancia in questo tipo di controversie e, poiché formata da 6 giudici “repubblicani” su 9, il faro di speranza per Trump per essere nominato Presidente per un altro mandato.
La situazione, adesso, si potrà evolvere in molteplici modi. Trump potrebbe effettivamente vincere il ricorso e il conseguente appello alla Corte Suprema, oppure perderlo venendo quindi obbligato a lasciare la Casa Bianca, nel caso peggiore facendo intervenire l’esercito. La possibilità più plausibile è, però, un Trump rassegnato, che, reduce dalla sconfitta in campo legale nei vari stati della nazione e dall’abbandono dei più fedeli, accetti la sconfitta e ceda il posto al nuovo presidente eletto. Infatti, lunedì 23 novembre, attraverso una lettera spedita dal GSA (general services administration, l’agenzia responsabile del processo di transizione da un presidente a un altro), si è ufficializzato e avviato il processo di transizione. Nonostante questo, però, Trump continua a portare avanti la retorica del broglio elettorale e afferma che, sebbene abbia accettato l’inizio di questo processo, continuerà i ricorsi legali per dimostrare l’illegittimità di Biden.
Per Biden però, non sono finiti i problemi. Infatti, anche se le possibilità che Trump gli rubi l’elezione siano molto basse, Il nuovo presidente dovrà affrontare anche un altro ostacolo, ovvero il Senato. All’interno del sistema legislativo americano il Senato ha un grosso peso, esso infatti può, assieme alla Camera dei Rappresentanti, porre un veto alle proposte dell’esecutivo oppure approvarle, facendole diventare legge. Per il presidente in carica, quindi, è un problema quando al Senato la maggioranza è rappresentata dal partito opposto, in quanto lo costringe a cercare un punto comune tra la sua visione e quella dell’altro partito. Allo stesso modo, una maggioranza repubblicana al Senato potrebbe obbligare Biden a rinunciare ai punti più radicali del suo programma elettorale, come la codifica della legge sull’aborto in legge federale e il progetto nazionale di conversione energetica all’energia verde. Certezze, però, purtroppo non ce ne sono. Il Senato attualmente ha due seggi vacanti, entrambi saranno assegnati dallo stato della Georgia che, però, perché nessun candidato ha raggiunto la soglia del 50%+1 dei voti, andrà al ballottaggio che si terrà il 5 gennaio. Questi due seggi sono decisivi per Biden, in quanto se verranno assegnati ai democratici il Senato avrà un pareggio di 50-50 spezzato dal voto della vicepresidente che, appunto, ha diritto di voto al Senato solo in caso di pareggio.
Insomma, le elezioni si sono ormai già svolte da un po’. I voti sono stati già contati e ricontati più volte. Ma, purtroppo, l’infinita complessità di un sistema imperfetto ha reso la prima potenza mondiale economica, militare e politica ciò che meno può essere definito un “faro di democrazia”, mettendo alla luce gli aspetti più caotici e grotteschi di un enorme sistema burocratico su cui tutto il mondo si affida, ma a cui basta un eccentrico “NO” per andare in cortocircuito.