//Canto di Natale – Una rivisitazione

Canto di Natale – Una rivisitazione

di | 2020-12-07T17:38:44+01:00 7-12-2020 17:38|Alboscuole|0 Commenti
Di  Elena Carbutti Classe III sez. L   Sembra che il coronavirus non riposi nemmeno il giorno della Vigilia di Natale: oggi 10.000 contagi su 1.000.000 di tamponi. Si rinnova l’appello a tutti i medici disponibili, in pensione o neo-laureati, di prestare il proprio contributo al Paese in questa dura lotta che…”                                                  Qualcuno spense il televisore della clinica, nella stanza riservata ai dipendenti.                                            <Ti pago per lavorare, non per oziare davanti alla televisione!> tuonò una voce adirata alle spalle di Bob Cratchit, allampanato e lentigginoso infermiere della clinica privata “Scrooge & Marley” di Londra, tra le più rinomate e costose dell’Inghilterra, specializzata nella cura di malattie oncologiche.                                                                                                                                                                            Il dottor. Scrooge lanciò uno sguardo di fuoco all’infermiere, prima di abbaiargli le indicazioni per occuparsi della paziente della stanza 104. Sulla cinquantina, alto e pallido, con profonde occhiaie sotto gli occhi scuri e capelli castani striati di grigio, Ebenezer Scrooge era specializzato in oncologia ed era il fondatore della clinica, insieme al defunto dottor. Jacob Marley. Divorziato da undici anni, nonché padre del venticinquenne Fred Scrooge, chiunque non lo conoscesse l’avrebbe scambiato per un impiegato delle pompe funebri o un funzionario bancario: molti si chiedevano come mai avesse deciso di fare il medico, dato che i pazienti per lui erano solo una serie di cifre nei bilanci economici. Aveva fondato la clinica trent’anni prima, insieme ad un socio, Jacob Marley, anche lui medico oncologico: la clinica offriva le migliori cure, tuttavia a prezzi elevatissimi, cosicché solo i miliardari potevano permettersele. Usciva di casa solo per recarsi alla clinica e, nonostante fosse straricco, non si concedeva mai lussi o svaghi: viveva nella stessa misera villetta in periferia da tutta la vita, ritornandoci però solo sporadicamente, avendo una camera nella clinica, non aveva altri abiti che non fossero i camici medici e i completi grigi che indossava alle riunioni dei finanziatori.                                                                                                                                                                          <Che stupidaggine!> esclamò mentre Bob usciva dalla stanza <Perché mai un medico dovrebbe andare a lavorare in quei miseri ospedali, lontano dalla propria casa, facendo turni massacranti e sottopagati, rischiando di venire contagiati, quando può continuare a vivere tranquillo dove si trova?!> borbottò, mentre stracciava le lettere mandatogli dallo Stato, nei quali veniva sollecitato a “prestare un servizio al proprio Paese”. L’altro giorno erano venuti perfino alcuni funzionari comunali, pregandolo di prendere servizio in uno degli ospedali londinesi, ormai a corto di personale; lui aveva risposto in malo modo, cacciandoli immediatamente dalla clinica, insieme ad una donna piangente, venuta ad implorarlo di curare il figlio. Niente di strano: erano tanti i parenti sciocchi ed empatici che passavano il tempo a piangere e a disperarsi, sperando così di curare i loro cari. Questa si era presentata supplicandolo di curare il figlio Tim, di 10 anni, malato di cancro; aveva affermato però di non poter pagare le somme richieste: diceva che avrebbe pagato, ma in tempi un po’ più lunghi rispetto a quelli degli altri pazienti. Sentendo ciò, Scrooge le aveva rivolto un sorriso freddo e le aveva consigliato di rivolgersi all’ospedale lì vicino, per poi sbatterle la porta in faccia.                                                                                                                                                                     Quella sera, come al solito, andò nella stanzetta adiacente allo studio e riprese a fare i bilanci, cercando un modo per incrementare i guadagni. Non credeva nel Natale e pertanto non lo festeggiava. Ad un certo punto, però, la finestra si spalancò a causa di un vento fortissimo, che fece volare tutti i bilanci. Seccato, si alzò per andare a chiudere la finestra e raccogliere i fogli, trovandosi però in mano la foto dell’inaugurazione della clinica, raffigurante due uomini sorridenti che tagliavano un nastro rosso. Chiuse la foto in un cassetto della scrivania. Marley, l’uomo dai capelli rossi, era deceduto qualche anno fa, la notte della Vigilia, a causa di un infarto e, sebbene non potesse dire che gli mancasse o che provasse per lui un particolare affetto, era stato il suo primo amico, nonché l’ultima persona rimastagli accanto.                                                                                            <Bei tempi, eh?> disse una voce, limpida e sfocata allo stesso tempo, come se appartenesse ad un sogno notturno in procinto di finire con il risveglio. Ebenezer alzò lo sguardo sorpreso, trovandosi davanti il fantasma di Jacob Marley, il volto smagrito e gli occhi vuoti e inespressivi.                                      <Tu sei morto> gli disse l’altro.                                                                                                                                           <Si, lo so> rispose Jacob <Sono morto e ora non sono altro che un fantasma, condannato all’Inferno per l’eternità. Ascolta> scattò poi, gli occhi stralunati e l’espressione da pazzo <ormai la mia sorte è segnata, ma la tua no>. Le catene che gli legavano i polsi tintinnarono, mentre si sporgeva verso di lui. <Tu hai l’occasione per redimerti, per fare del bene, per salvarti. Non sprecarla. Accetta l’offerta che ti è stata fatta.>.                                                                                                                                                                              Ebenezer, che fino a quel momento era rimasto immobile, si alzò e prese un bicchiere d’acqua, per poi versarci una busta di polvere bianca presa dall’armadietto dei medicinali e ingoiarla tutta in un sorso. Poi si diresse verso il letto, borbottando <Devo essere davvero stremato se ho le allucinazioni. Ah, povero me! Meglio provare a dormire un po’>. Sotto lo sguardo di Jacob Marley, l’uomo si addormentò tranquillo, mentre lo spirito scompariva sussurrando <Mi dispiace per te, perché la sorte che ti attende è ben peggiore della mia>.                                                                                                Ebenezer si svegliò di soprassalto, sentendo un tocco fumoso e solido allo stesso tempo schiacciarli la pancia. Aperti gli occhi, pensò fosse giorno perché la stanza era completamente illuminata, rischiarata da una luce innaturale, al centro della quale stava, un vecchio o un bambino, non lo sapeva. Gli disse piano <Svegliati, abbiamo molto da fare e molto poco tempo>.                                                  <Chi…cosa…?> balbettò Ebenezer.                                                                                                                                    <Sono il fantasma dei Natali passati. Mi sembra che tu abbia dimenticato chi sei e forse ciò che ti mostrerò te lo ricorderà, o almeno lo spero> mormorò con una voce inumana e cortese, come se fossero due persone normali, che chiacchierano del più e del meno.                                                                          Poi, tutto divenne sfuocato e Ebenezer si ritrovò nella villetta in campagna, nel salotto illuminato a festa, con le lucine e l’albero e i regali: protagoniste della scena erano tre figure, una donna giovane, ma molto malata, che sorrideva, per quanto potesse sorridere, ai due bambini accanto a lei, una bimba con le treccine, che, parlando con un filo di voce, chiamava Fanny e un bambino piccolo, di cui Scrooge sapeva il nome, ancor prima che la donna lo pronunciasse.                                                                                                                                                                                  <Ricordi?> chiese lo spirito. L’altro fece sì con la testa, certo che lo ricordava: era l’ultimo Natale passato con sua madre, prima che morisse di cancro. Nonostante tutto, però la scena sembrava irradiare felicità e Ebenezer la guardava come se si trattasse di un arto amputatogli da tempo, che ricordava ma non percepiva.                                                                                                                                                     Poi, l’atmosfera cambiò di nuovo e Ebenezer vide un ragazzo, con profonde occhiaie, ma spensierato, che riponeva i libri -tomi di medicina- per raggiungere i suoi compagni e festeggiare.                                                                                                                                                                                                                                                                           Poi, ancora, si trovavano nel reparto di medicina oncologica dell’ospedale ed uno specializzando stava facendo gli auguri ai pazienti, prima di uscire non senza un cenno e un sorriso da parte del dottor. Fezziwig.                                                                                                                                                                                 Poi, si trovava nella sua clinica, tre mesi dopo l’apertura, piena di decorazioni –così diversa da quella che era diventata, con i corridoi spogli e cupi- e guardava due uomini brindare, insieme ai pazienti, augurando pronta guarigione a tutti coloro che erano malati.                                                               Dopo, ecco una famiglia felice, un padre, una madre e un neonato: Bella ed Ebenezer ridevano osservando il piccolo Fred guardare estasiato le luci.                                                                                               Lo spirito rimasto in silenzio fino a quel momento, limitandosi a far cambiare la scena con un movimento della mano rispondendo ad un segnale che Ebenezer non vedeva, gli disse, riportandolo nella sua stanza <Ricordi? Ricordi cosa provavi in quei momenti, ricordi cosa pensavi, ricordi quanto e perché li amavi?> ad ogni domanda, Ebenezer assentiva con un ceno del capo. Lo spirito gli chiese allora <E cosa provavi?>.                                                                                                                          Con la voce rotta, un pigolio sommesso, Ebenezer rispose <Io ero… felice>. La felicità, da tanto tempo non la provava, a tratti dimenticava cosa significava essere felice.                                                                     <Sai perché eri felice?> gli chiese lo spirito.                                                                                                                          Ebenezer rimase in silenzio.                                                                                                                                             <Tu sei felice ora?>                                                                                                                                                                Era felice? Non lo sapeva, o meglio preferiva fingere di non saperlo, piuttosto che scontrarsi con la dura verità. Rispose perciò nel modo in cui avrebbe risposto fino a qualche ora prima <Ora ho una clinica, sono ricco e conosciuto e…>                                                                                                                                Lo spirito gli fece segno di tacere e scosse la testa, sulle labbra una smorfia delusa, prima di sparire, lasciando la stanza immersa nell’oscurità.                                                                                                      Sconvolto, Ebenezer ritornò a letto, ma non chiuse nemmeno gli occhi, che una risata profonda spezzò il silenzio della stanza e davanti a lui si materializzò un’altra figura, alta e aitante, dall’aria piuttosto gioviale, che disse, con la sua voce baritonale, di essere il fantasma del Natale presente. Con una poderosa pacca sulla schiena lo indusse ad alzarsi, mentre la stanza girava vorticosamente. Quando si fermò si trovavano qualche stanza più in là, una delle camere destinate ad infermieri e medici: lì c’era Bob Cratchit, che bisbigliava per paura di essere sentito dal dottor. Scrooge e faceva gli auguri alla sua famiglia, tramite una videochiamata. La famiglia era in quarantena perché la sorellina di Bob, Martha, aveva contratto il coronavirus ed ora doveva aspettare di guarire, prima di poter mettere anche solo il naso fuori dall’uscio di casa. Eppure, nonostante questo, avevano tutti gli occhi brillanti per la felicità e la piccola Martha cantava i canti di Natale per far ridere il fratello.                                                                                                                                       La scena cambiò e si trovarono in uno dei tanti ospedali sovraffollati, dove alcuni medici dall’aria distrutta cantavano i canti di Natale insieme ad alcuni pazienti e recapitavano loro pacchetti e buste, segno che i loro parenti non li avevano dimenticati. Era strano vedere quanto questa piccola dimostrazione d’affetto sembrasse ridare forza ed energia ai pazienti più di qualsiasi cura.                                          La scena cambiò nuovamente e si trovarono in un appartamento londinese dove tre persone stavano festeggiando: Bella rideva e guardava con affetto Fred e la sua fidanzata, mentre le dita sfioravano indecise il display del cellulare sul numero di Ebenezer; infine, sembrò decidere che la cosa migliore fosse lasciar perdere e spense il telefono ricominciando a parlare con i due ragazzi.                               La scena cambiò ancora portandoli in un altro appartamento londinese, addobbato a festa, in cui due genitori ridevano mentre un bambino scartava i regali. L’atmosfera però era guastata dal fatto che il bambino, Tim ricordò Scrooge, era attaccato ad una flebo e i genitori, tra cui la donna che Ebenezer aveva cacciato dalla clinica, sembravano sul punto di piangere.                                                                      <Ce la farà, vero?> chiese esitante Scrooge.                                                                                                                 <Suppongo che i medici faranno il possibile per non farlo soffrire troppo> gli rispose l’altro, ripetendo ciò che Scrooge aveva detto alla donna, quando questa gli aveva rivolto la stessa domanda.                                                                                                                                                                            <Ma… ma non è giusto… lui è… così piccolo… non ha colpe…> balbettò l’altro, mentre un sentimento simile a compassione mista a rimorso gli artigliava lo stomaco.                                                   Non ci fu però risposta: era scoccata la mezzanotte e lo spirito al suo fianco era diventato un vecchietto gracile e smunto, per poi accasciarsi al suolo, morente, e dissolversi in polvere.                                       Scrooge si sedette sul letto e pallido aspettò il sopraggiungere dell’ultimo spirito, come pronosticatogli dal fantasma di Marley.                                                                                                                                                                       Diversamente dalle volte precedenti, quando questi arrivò, la stanza non si illuminò: Scrooge non lo vedeva, ma sapeva che c’era, lo percepiva come si percepisce il vento tra i capelli e l’acqua sul corpo, sentiva che c’era grazie ad una sensazione alla bocca dello stomaco, come se qualcuno gli stesse torcendo le viscere. Non parlò, ma ormai Ebenezer sapeva che era il fantasma dei Natali futuri. Quando mosse la mano, per mostrargli chissà cos’altro, Scrooge riuscì a vederlo e il cuore gli martellò nel petto, sbattendo contro le costole quasi volesse sfondarle: l’incarnazione della morte, con il mantello nero e la falce in mano. Gli mostrò un cimitero, uno di quelli del centro, ordinato e tranquillo. Gli indicò una lapide, bianca, di marmo, ben curata, intorno a cui era raccolto un piccolo capannello di persone: Bella, in lacrime, e accanto a lei, un uomo dall’aria non troppo affranta, che le teneva la mano e la consolava, Fred, molto triste, e la fidanzata, poi Bob Cratchit, dispiaciuto per il dottore ma anche felice per aver preso le redini della clinica…                           Mentre Scrooge guardava questa scena, lo spirito lo spinse, lo indusse ad avvicinarsi ancora di più, fino a farlo cadere nella bara.                                                                                                                                                   Lì vide l’Inferno, mille volte più spaventoso di quanto avrebbe mai creduto possibile, più orribile di quanto avesse immaginato, ma soprattutto quasi deserto: perfino alcuni assassini avevano avuto acceso al Purgatorio, ma lui no. Capì così che non erano tanto le azioni compiute ad influenzare la sorte dopo la morte, quanto il pentimento, la consapevolezza del male fatto e il desiderio di cambiare, di rimediare. Lui non si era pentito ed aveva scelto quel destino.                                                                    Gridò e quando aprì gli occhi vide il soffitto della sua camera e accanto a lui la sveglia che suonava indicando che erano le sette. Piano si alzò e guardando il calendario vide che era il giorno di Natale, il 25 dicembre 2020. Sollevato si vestì e come prima cosa addobbò tutta la clinica, intonando “Jingle Bells”.                                                                                                                                                        <Su, che aspetti?> rimproverò con tono burbero e giocoso Bob <Vieni ad aiutarmi, no? Le decorazioni non si appenderanno da sole>. Andò poi personalmente nelle camere di tutti i pazienti per augurare loro Buon Natale, preparò una stanza celeste e vivace e chiamò la famiglia di Tim, annunciandoli di recarsi il prima possibile alla clinica, dove era già stata preparata una camera per il bambino e che per quanto riguardava i costi, questi erano già stati saldati.                                                                   Andò poi a casa di Bella, dove si scusò per quanto era stato disumano e le chiese se avrebbe mai potuto perdonarlo e concedergli un’altra possibilità. Lì, incontrò anche il figlio che abbracciò con un affetto talmente raggiante da rendere tutti gli anni passati lunghi quanto un battito di ciglia.                            <Vuoi rimanere a pranzo?> gli chiese esitante Bella, con la bocca ancora spalancata a causa della sorpresa.                                                                                                                                                                           <Certo, ma prima mi devo occupare di una cosa> disse prima di dirigersi di corsa al Comune, per ufficializzare il suo trasferimento temporaneo in uno degli ospedali sovraffollati per tutta la durata dell’epidemia del Covid.                                                                                                                                                       Insomma, questa è una delle più famose storie di Natale, ambientata però nel nostro periodo. Il messaggio che vuole trasmettere è secondo me che non è mai tardi per cambiare, per diventare migliori, e che la famiglia e gli amici sono il bene più prezioso che abbiamo. Non dimentichiamocelo e non perdiamo tempo a pensare ad orgoglio o ad opinioni altrui: facciamo ciò che ci rende felici e stiamo con le persone che amiamo, anche a distanza, non permettiamo al coronavirus di dividerci, ma di unirci, facciamo in modo che questa situazione tiri fuori il meglio da noi.                                                                                                                                                                                Infine, vorrei porre l’accento su un pensiero, cinico, ma veritiero, di Ebenezer Scrooge “Perché mai un medico dovrebbe andare a lavorare in quei miseri ospedali, lontano dalla propria casa, facendo turni massacranti e sottopagati, rischiando di venire contagiati, quando può continuare a vivere tranquillo dove si trova?!”. Quest’affermazione corrisponde all’attuale vita di molti medici, che si stanno sacrificando per noi, che sono dottori con la D maiuscola, perché antepongono i pazienti a loro stessi, perciò se possiamo rivolgiamoli un ringraziamento silenzioso, perché senza di loro il Coronavirus si sarebbe appropriato di ogni alito di vita presente sulla terra.