//Le Foibe e il “Treno della Vergogna”: uno spettacolo teatrale per riflettere

Le Foibe e il “Treno della Vergogna”: uno spettacolo teatrale per riflettere

di | 2020-02-15T15:22:05+01:00 15-2-2020 15:22|Alboscuole|0 Commenti
Di Elena Carbutti – classe II sez. L   Lunedì 10 febbraio 2020, in occasione del Giorno del Ricordo, ci siamo recati al Castello Svevo di Barletta, per assistere ad un altro spettacolo, il cui tema erano, però, le foibe e il “Treno della Vergogna”. Questa volta l’ambientazione non è stata lo spazioso cortile del palazzo, bensì i suoi sotterranei, in cui le poche lampade mandavano fiochi bagliori e tremolanti ombre sulle pareti. Faceva paura! Non tanto per l’aspetto, quanto per la consapevolezza di quante urla abbiamo sentito quelle pareti, quanti prigionieri abbiano conosciuto, a quanti massacri e torture abbiano assistito, quante poche persone abbiano visto uscire da lì con le proprie gambe e quante moltitudini abbiano visto invece salire le scale in una bara. Sembrava immenso.                                                                                                                                             Dopo un po’, abbiamo lasciato la prima stanza, in cui ci eravamo trovati scendendo le scale, e siamo andati in uno spazio circolare, più ampio, dal cui soffitto pendevano dei manichini, legati tra di loro, come se fossero stati impiccati: era la riproduzione dei corpi degli infoibati, vittime innocenti delle truppe del maresciallo Josip Broz, meglio conosciuto come Tito. Poi abbiamo ascoltato la guida, che ci ha fornito una spiegazione dettagliata sulle foibe e sulle cause dei massacri in esse avvenuti. E… indovinate un po’? Come sempre causa di tutta questa sofferenza e violenza è il potere: il desiderio irrefrenabile di avere potere, come una benda rossa legata sugli occhi, impedendo di vedere le conseguenze dell’egocentrismo, dell’egoismo, della scelleratezza. In questo caso, l’obiettivo di Tito era dimostrare il suo distacco dal fascismo e l’indipendenza della Jugoslavia, cui era a capo, sperando così di annettere ad essa nuovi territori, sottratti alla penisola italica. Tuttavia, l’unico modo per avvalorare ciò era attraverso il consenso della totalità della popolazione slava, di cui però la metà era italiana. La situazione doveva cambiare. Perciò, agli italiani residenti in Istria e in Dalmazia fu imposto di emigrare, di andarsene, di lasciare la propria casa, il proprio lavoro, il proprio passato. Andarsene, semplicemente. Scomparire da quei territori, come se non vi fossero mai stati, come se non avessero mai passeggiato in quel paesino oltre il fiume, non avessero mai accompagnato il proprio figlio in quella scuola, non avessero mai salutato il proprio datore di lavoro in quell’edificio, come se con loro se ne sarebbe andato ogni ricordo. Ma ciò era impossibile: nella scuola sarebbe sempre rimasta una foto di classe con qualche alunno italiano, per strada, sarebbe sempre rimasta l’impronta della suola di un italiano, in una casetta di campagna, magari, sarebbe sempre rimasta la casetta che un italiano aveva costruito per gli uccellini. E allora se niente di tutto questo sarebbe mai potuto essere eliminato, perché? Perché tanta sofferenza? Perché tante lacrime? Perché tanto odio? Per dimostrare cosa? Cosa mai si è potuto dimostrare costringendo tante persone a emigrare, pur essendo certi della loro innocenza?                                                                                                                                                    Purtroppo, però, non tutti vollero o poterono emigrare, e coloro che rimasero subirono una sorte orribile, orrenda, tremenda quanto quella degli ebrei, nelle cui torture il nuovo regime faceva di tutto per non far vedere un proprio coinvolgimento. Fu chiamata “giustizia”, ma, in realtà, fu solo un’ignominia terrificante. Catturare, umiliare, rinchiudere, torturare, flagellare, uccidere innocenti, non è giustizia. Niente di quanto fu compiuto in questi anni fu giusto. I prigionieri italiani, dopo indicibili torture, venivano legati con il fil di ferro, e gettati nelle foibe, profonde centinaia di metri e, talvolta, piene d’acqua. I più fortunati morirono sul colpo, immediatamente, senza capire ciò che stava avvenendo e senza soffrire. Come si fa a dichiarare fortunata una persona morta in un modo così terribile? Purtroppo, però, in quelle situazioni la morte è agognata più dello stesso ossigeno. Infatti, coloro che per miracolo, o meglio, per tragedia, non persero la vita a seguito della caduta, morirono a causa delle granate lanciate nelle foibe dai soldati, oppure annegarono, dato che, talvolta, nelle foibe piene d’acqua, prima di essere buttati giù, i prigionieri venivano legati a grossi massi, il cui peso impediva di rimanere a galla. Furono pochissimi i superstiti, che, oltre a resistere a tutto ciò, ebbero anche la forza sovraumana di risalire fino alla bocca della fossa, conquistandosi la libertà. Di loro, ci è stato permesso di leggere le testimonianze e la storia, scritte su pannelli luminosi posti in semicerchio nella sala, insieme ad altri riportanti, invece, i nomi delle vittime pugliesi, che erano a decine, forse anche centinaia. Tra le varie storie, mi ha colpito particolarmente quella di Mafalda Codan, italiana residente a Trieste, che, a guerra finita, si ritrova, un giorno, soldati jugoslavi sulla soglia di casa, i quali, dopo aver ucciso, davanti ai suoi occhi, tutti i parenti, la catturarono e la rinchiusero. La portarono in varie città, dove lei venne accusata, torturata, umiliata da coloro che, fino a qualche tempo fa, erano dipendenti del padre, il quale, aveva fatto loro, numerosi prestiti, non chiedendo mai una restituzione. Venne poi reclusa in carcere, in cui, dopo aver visto la morte da vicino, incontrò qualcuno che cominciò a credere alla sua versione, alla verità. Nonostante ciò, l’unico cambiamento che lei visse fu il passaggio da prigioniera a inserviente, senza, però, la restituzione della libertà. Di tutto ciò, mi ha colpito molto l’espressione “Da una frase detta dalle forsennate, capisco che, durante le perquisizioni e i furti perpetrati a casa mia, hanno trovato il mio diario. In un quadernone ho scritto infatti il calvario della mia famiglia iniziato con l’occupazione slavo-comunista del settembre 1943. Ho annotato tutto nei minimi particolari, ore, giorno, mese, avvenimenti, parole dette, tutto e completato con fotografie, documenti importanti e pezzi di giornale. Sono testimonianze che scottano, verità che non si possono negare, che fanno paura, è per questo che vogliono la mia morte”, riferendosi alle due donne, che cercano in tutti i modi, abbassandosi a qualunque livello, compiendo qualunque bassezza, di farla condannare e infoibare.                                                                                                                                                                     Successivamente, abbiamo visto una rappresentazione teatrale, con tema “Il treno della vergogna”. I protagonisti erano un uomo, anziano, stanco, e una donna, una normale donna di oggi, una donna moderna, una donna che non aveva tempo di rallentare, figurarsi di fermarsi e tornare indietro, ricordare. Come noi. Siamo tutti talmente presi dalla frenesia di una vita troppo veloce, che, in realtà, forse non è nemmeno vita. Se non ci si prende del tempo, se non ci si ferma, se per un momento non si ripensa al passato, non si ripensa alla propria storia, non si pensa anche solo a noi, come disse Van Gogh <<avrò speso tutta la mia vita e a me sembrerà di non aver vissuto>>. Tuttavia, a causa del ritardo di un treno, la donna è costretta ad aspettare e, nell’attesa, inizia a dialogare con l’uomo, che era uno dei passeggeri del “Treno della vergogna”, o “Treno dei fascisti”, come fu soprannominato allora. Mi chiedo come si possa trattare dei disperati, esuli, connazionali, in un modo così barbaro, facendoli sentire <italiani stranieri in Italia>. Perché? Qual era la loro colpa? Aver cercato di mettersi in salvo? Purtroppo, però, la loro fuga sembrava la confessione di un coinvolgimento fascista, e nessuno approfondì, cercò di capire queste anime sofferenti, perché, come ha detto l’uomo, <<il male, l’odio, si erano insediati nel cuore degli uomini, ed ora si voleva solo buttarli fuori, anche se a discapito di altri>>.                                                                                  E’ stata un’esperienza toccante, il cui scopo è quello di far riflettere e ricordare, affinché tali massacri non si ripetano mai più.