//Binario 21: quando

Binario 21: quando

di | 2020-01-24T18:35:31+01:00 24-1-2020 18:02|Alboscuole|0 Commenti
Di Elena Carbutti classe II sez. L   Oggi, 24 gennaio, data l’avvicinarsi della Giornata della Memoria, ci siamo recati al Castello di Barletta, per assistere e partecipare allo spettacolo “Il Binario 21”, chiamato così per via di uno dei temi centrali: la deportazione degli ebrei. In Italia partivano da questo binario, su cui, un tempo, viaggiavano i treni postali, e che fu trasformato da Hitler, nell’ “inizio della fine”. Da qui, gli ebrei prendevano il treno, che li avrebbe portati nell’Inferno.                                                                                                                                             Lo spettacolo si è articolato in tre momenti, tutti ugualmente significativi.                            Il primo è, però, stato il più forte, in cui veniva rappresentata una realtà truce e orribile, che al solo pensiero fa accapponare la pelle. Quanto abbiamo parlato, a scuola, della Shoah! Eppure ciò non ha reso il momento meno intenso, scontato. Abbiamo seguito una ragazza, in mantella e cappello rossi, e un uomo, infagottato in un pesante cappotto blu. Entrambi portavano una valigia. Siamo saliti, con in sottofondo una musica lenta, inquietante, in un piccolo vagone rosso; gli attori si sono posizionati ai due lati opposti del vagone e noi, guardandoci spaesati, esitavamo a salire. Quando eravamo tutti a bordo, hanno chiuso il portellone. Il vagone era buio, con solo qualche finestrella da cui entrava l’aria; scomodo, non c’erano panche o sedili; piccolo, ma noi stavamo comunque piuttosto larghi. Poi è iniziato il vero spettacolo, tratto dalla testimonianza di Liliana Segre: hanno inscenato la partenza di questa dal Binario 21. Tutti stavamo in silenzio, quasi senza respirare, ascoltando il dialogo tra un padre e una figlia: le domande di lei, speranzosa, nel cui animo si alternavano la paura e l’incertezza, la disperazione e la vergogna, fino all’angoscia esasperata, alla perdita di ragione, alla rabbia e al più puro terrore. Ad un certo punto, ha iniziato a gridare, voleva uscire, voleva l’aria, il cielo, la libertà. Mi ha fatto venire i brividi. Poi hanno riaperto il portellone e ci hanno spiegato il loro intento: farci ricordare; per poi recitare con voce piatta, calma, e per questo inquietante, parte del ritornello della canzone “Siamo angeli”, di Lucio Dalla e Gianni Morandi: “Anche gli angeli capita a volte sai si sporcano Ma la sofferenza tocca il limite E cosi cancella tutto e rinasce un fiore sopra un fatto brutto”. Subito dopo, abbiamo visitato una mostra di fotografie e scritti, realizzati in quei luoghi dell’orrore, mentre la guida ci dava spiegazioni esaurienti e molto interessanti circa Auschwitz, i campi di concentramento, gli esperimenti raccapriccianti con l’utilizzo di cavie umane e il Cammino della Morte. Tutto questo è lontano da noi, non ci ha nemmeno sfiorato, eppure tali racconti, che rispecchiano una realtà in cui vengono omessi gli episodi più cruenti e raccapriccianti, ti stringono il cuore; provocano un moto di raccapriccio e compassione e, talvolta, giunge spontanea alle labbra la domanda: “Possibile? Come può essere accaduto davvero?”. Un’altra stranezza è che, di quei indicibili dolori, si è fatta poesia, una poesia soave, che va dritta al cuore, in cui la tristezza traspare alla fine. La poesia che mi ha colpito maggiormente è stata “La farfalla”, di Pavel Friedman: L’ultima, proprio l’ultima, di un giallo così intenso, così assolutamente giallo, come una lacrima di sole quando cade sopra una roccia bianca così gialla, così gialla! l’ultima, volava in alto leggera, aleggiava sicura per baciare il suo ultimo mondo. Tra qualche giorno sarà già la mia settima settimana di ghetto: i miei mi hanno ritrovato qui e qui mi chiamano i fiori di ruta e il bianco candeliere di castagno nel cortile. Ma qui non ho rivisto nessuna farfalla. Quella dell’altra volta fu l’ultima: le farfalle non vivono nel ghetto. Infine, abbiamo visto un video musicale, con sfondo Auschwitz smantellata, in cui diversi gruppi musicali etnici intonavano le loro canzoni, che narravano di dolore straziante e di libertà, con la voce incrinata, tanto da far commuovere lo stesso cielo e, ancora di più, gli spettatori. Lenti, i violini e gli altri strumenti, accompagnavano le voci, tutte diverse, diversa la lingua e la tonalità, diverso il dolore, eppure uguale lo scopo: RICORDARE, PER NON RIPETERE.                                                                          Un’esperienza coinvolgente, toccante e, al tempo stesso, spaventosa, capace di farti rizzare i capelli sulla nuca e di farti venire brividi e pelle d’oca, la cui intenzione era dare a noi, generazione futura, un piccolo, ma fondamentale, insegnamento.