Gli unici suoni presenti erano quello del vento che fischiava sulla superficie dell’acqua, i battiti accelerati della ventina di persone a bordo del gommone e i singhiozzi della donna che ormai da tempo tremava, aggrappata al marito.
La donna osservava il mare con disprezzo, il colpevole della morte di milioni di persone.
Le lacrime continuavano a scorrere incessanti lungo le sue guance, diventate lucide e lievemente arrossate sopra la pelle scura.
«Non meritava di morire così!»
Urlò ancora, col viso bagnato e la voce spezzata, rivolgendosi all’oceano come se potesse sentirla.
«Lei aveva dei sogni, e credeva in un futuro migliore!»
Di scatto si aggrappò al bordo del gommone e si lasciò sfuggire dagli occhi altre lacrime.
Stava per buttarsi in mare quando due braccia l’afferrarono, in modo da non permetterle di fare pazzie.
«Aicha smettila, lei non è l’unica ad essere caduta in questa trappola mortale», la rimproverò l’uomo alle sue spalle, tirandola verso l’interno dell’imbarcazione.
La donna si ammutolì di colpo, girandosi verso i suoi compagni di viaggio, che avevano gli occhi puntati su di lei già da un po’ di tempo.
Quegli stessi occhi pieni di paura, che ne avevano passate tante prima di arrivare a quel punto, pieni di speranza e di terrore verso ciò che li attendeva.
Viaggiavano da giorni, pochi erano i sopravvissuti e i bambini necessitavano di cibo e acqua, alcuni erano svenuti ed altri erano caduti in mare.
«Tua figlia ed altri nostri compagni hanno perso la vita per colpa di quelle inutili guerre, se fossimo rimasti lì saremmo già morti tutti!»
Continuò, lasciando la presa, appena la donna sembrava essersi calmata.
«Tutti noi siamo fuggiti per ricominciare, perché credevamo in un futuro migliore, proprio come tua figlia».
Aicha abbassò lo sguardo e si mise a sedere per terra, portando le ginocchia al petto e nascondendo il viso tra esse, mentre in lontananza si poteva intravedere l’arrivo di una nave.