Una condanna alla pena di morte, in un Paese in cui tale pena è prevista, è certamente legale: è anche giusta? Il diritto al lavoro, assicurato dall’art. 4 della nostra Costituzione, è certamente giusto: è anche legale, cioè giuridicamente esigibile? L’ordine di Creonte, che vieta ad Antigone di seppellire il fratello, è legale: ma ad esso Antigone oppone altre leggi, quelle “non scritte, inalterabili, poste dagli dei”, e quindi superiori a quelle dell’uomo. Ma quali sono queste leggi? dove le troviamo?
Se è facile dire che cosa è la legalità, è difficile definire che cosa sia la giustizia. Non è sufficiente dire che è “a ciascuno il suo”, vuoi per la vaghezza di questo “suo”, vuoi perché sentiamo che in certi casi occorre andare oltre la nozione di giustizia distributiva. A ancor meno si può ritenere che la legge sia il vestito della giustizia.
Non è così, e lo constatiamo ogni momento. Per cui ci portiamo dentro una sorta di nostalgia per una stagione-mito, nella quale legge e giustizia sono state la stessa cosa, e dopo la quale il connubio si è scisso, per la sete di potere dell’uomo. Il ceppo comune è bene espresso dalla radice “ius” (diritto), che ha generato sia la figlia nobile “iustitia”, sia il figlio autoritario “iussum” (comando). E soffriamo perché nell’esperienza storica il secondo ha sopraffatto la prima, e la legge è diventata sinonimo di forza, volontà, sopraffazione.
La stagione-mito non è mai esistita. Ma è esistito, invece, il cammino verso un recupero di quel connubio ideale. Se non si può descrivere che cosa è “giusto”, si può contrastare che cosa è certamente “in-giusto”: è ingiusto che il potere prevarichi sull’uomo. Di fronte alla legge-autorità si è costruito progressivamente un luogo davanti al quale anche la forza deve fermarsi: i diritti della persona umana. Dichiarare che la persona è “inviolabile” è certamente “giusto”. La giustizia abita in questa protezione.
Per poter esigere l’inviolabilità è stato necessario che il pensiero diffuso riconoscesse che quest’area aveva un fondamento più alto della forza, era presidiata da qualcosa davanti alla quale anche l’imperio doveva arrestarsi: il valore ideale, il principio superiore. Antigone invoca le leggi “che non da oggi, non da ieri vivono, ma eterne: quelle che nessuno sa quando comparvero”: e proprio il mistero della loro origine le colloca nel profondo dell’essere umano. La religione le situa nella volontà di Dio. Il giusnaturalismo nella natura. L’illuminismo nella ragione. La modernità nel consenso universale. Ognuno sceglie secondo le sue convinzioni, l’essenziale è che tutti riconoscano la trascendenza di questo principio.
La storia dei diritti umani, del loro progressivo ampliamento, della loro difficile tutela in concreto, è la storia della codificazione dell’idea di giustizia. Si è cominciato con il minimo etico, il diritto alla vita, alla libertà personale, alla libertà di espressione, di culto, di riunione. Poi si è allargata la sfera ai diritti di partecipare alle decisioni collettive. Infine si è disegnata l’area dei diritti sociali, dell’attesa di solidarietà nelle situazioni di debolezza.
Il costituzionalismo è la disciplina che percorre questo cammino. Con le moderne Costituzioni l’autorità e il principio ideale si ricongiungono, legalità e giustizia vengono a coincidere, la stagione-mito diventa stagione reale. Perché la Costituzione è una legge, ma è una legge fatta di principi e di valori, e tale che tutte le leggi specifiche devono misurarsi su di essa. Ha questa statura morale perché viene composta dagli uomini quando escono da un trauma collettivo, da una tragedia nella quale hanno sperimentato tutto il male della vita, ed hanno deciso che la società deve invece ispirarsi ad un ethos condiviso ed umanitario.
Poi può accadere, e accade, che la vita concreta continui ad essere piena di ingiustizie, di sopraffazioni, di violenze e di arbitri. Ma non è colpa della Costituzione. E’ colpa del nostro egoismo e della nostra insensibilità. La Costituzione ci indica in quale direzione dobbiamo andare, sta a noi seguirla.