Martina Todaro V D – In questi primi mesi di scuola abbiamo letto la tormentata storia di Maria, protagonista del romanzo “Storia di una Capinera” di Giovanni Verga. Verga, nato a Catania nel 1840 e morto nel 1922, ebbe il suo primo successo proprio con questo romanzo che, a soli trent’anni dalla sua prima pubblicazione, raggiunse la XXII edizione, numero molto importante se consideriamo che i suoi capolavori “I Malavoglia” e “Mastro don Gesualdo” si fermarono rispettivamente alla VI e V edizione. Questo romanzo ci racconta i trascorsi di una giovane educanda “costretta” alla monacazione e lo fa in modo semplice, ma non per questo banale, cioè sotto forma di lettera; si tratta infatti di un romanzo epistolare, il cui Maria scrive alla sua amica più cara e cosa può esserci di più sincero ed emozionante di questo? Il registro è medio-alto e il tono è lirico, in quanto leggiamo emozioni sincere e profonde tanto che riusciamo ad immedesimarci nella triste storia della protagonista. Verga si propone di denunciare la situazione della donna nella seconda metà dell’Ottocento, presentandoci una storia di repressione, invece che di ribellione, come troviamo invece nella “sventurata” monaca di Monza di Manzoni, che cede alle tentazioni sia a causa della sua debole forza di volontà sia del suo grande bisogno d’affetto. Il racconto si apre con la spiegazione da parte dell’autore del titolo del romanzo, ammettendo che l’evolversi della breve vita di quell’animale, che aveva visto morire dalla tristezza chiuso in una gabbia, era la “fotocopia esatta” dei trascorsi di una povera ragazza della Sicilia del 1850, chiusa anche lei nella “gabbia” di un convento, costretta a diventare suora, ma innamorata, innamorata a tal punto del suo “peccato” da giungere ad un tormentato conflitto interiore, tra i suoi “vorrei” ed i suoi “dovrei”, tra i suoi desideri e la sua condizione sociale; conflitto che tenterà di reprimere in ogni modo, ma senza risultati. Maria è innamorata di Nino, un giovane figlio di amici del padre e della sua seconda moglie, e il suo amore è talmente grande da non sentire ragioni, neanche di fronte al matrimonio del suo amato con la sua sorellastra. Il suo amore è più grande di tutto, anche del suo corpo indebolito dalle tante punizioni che le sarebbero dovute servire per dimenticarlo, talmente forte che Maria smette di contrastarlo e vi si abbandona, cedendo piano piano al suo folle amore; ed è proprio così che la credono pazza per cui viene rinchiusa in una cella come suor Agata, un’altra “capinera” come lei, anche lei impazzita per amore. Ciò che nessuno sapeva, o che tutti fingevano di non sapere, era che l’amore di Maria era reale e ricambiato, come dimostravano gli sguardi dei due giovani nelle settimane trascorse sul Monte Ilice per sfuggire al colera, come dimostravano il loro ballo e le loro passeggiate, come dimostrava la rosa che lui le aveva donato l’ultima sera prima della sua partenza, rosa che Maria conservò fino alla morte, stringendola al petto e sulle labbra proprio in quel solenne e ultimo istante. Credo che questo sia uno dei romanzi più belli che si possa leggere nella propria carriera scolastica, non solo per fare un discorso più ampio sulla questione della monacazione forzata, ma per scoprire pagine piene di sentimenti, di amore e, soprattutto, per capire che niente è mai come sembra: Maria sembrava calma, ma dentro di lei c’era una tempesta di emozioni contrastanti; agli occhi di tutti era pazza, invece era solo innamorata…