Di La Redazione Junior scuola secondaria –
Durante questo primo mese dell’anno si è festeggiata la giornata della pizza, patrimonio mondiale dell’umanità. La Pizza Napoletana è uno degli alimenti che rappresenta maggiormente l’Italia in tutto il mondo, è mangiata e apprezzata da qualunque popolo ed il suo consumo ogni anno è in continua crescita. Il rigoroso codice della preparazione della pizza si trasmette da generazioni: una serie di passaggi a mano che comprendono lo ‘staglio’ (i panetti di pasta lievitata pronta a essere stesa), l’’ammaccatura‘ (la prima spianata della pizza), il ‘cornicione’ (la creazione del bordo della pizza che delimita pizza e condimento) e lo ‘schiaffo’ (la seconda spianata con la pizza presa a schiaffi sul banco di lavoro, di marmo cosparso di farina). A questo si aggiunge per i pizzaioli più esperti il ‘volo’, che, facendo roteare la pizza in aria, permette di acquisire una maggiore ossigenazione e consistenza e che ha dato vita anche a gare di pizza acrobatica. Le fasi successive sono la distribuzione del condimento, partendo dal centro del disco di pasta secondo il caratteristico movimento a spirale, prima di posizionare la pizza nel forno a legna tradizionale con la fiamma fatta riavvampare grazie a trucioli e farla ruotare su se stessa per una cottura omogenea.
La cottura su pietra di polente di cereali tostati e macinati o di pane azzimo risale al Neolitico inferiore. Il ruolo degli Egizi nella vicenda della pizza è quello degli scopritori del lievito. Con la lievitazione gli impasti di cereali schiacciati o macinati diventano, dopo la cottura, morbidi, leggeri, più gustosi e digeribili. Si diffuse così il pane. L’attuale frumento deriva da quello romano attraverso selezioni e incroci fra i diversi tipi di farro allora conosciuti. La parola “farina” deriva da “far”, nome latino del farro. I contadini impastavano la farina di chicchi di frumento macinati con acqua, erbe aromatiche e sale e poi mettevano questa focaccia rotonda a cuocere sul focolare, al calore della cenere. Con i Longobardi arriva in Italia un vocabolo del germanico: “bizzo-pizzo”, dal tedesco “bizzen”, collegato all’inglese “bite” e “bit”, significa morso.
Nel latino medievale del Codex Cajetanus di Gaeta viene per la prima volta chiamata “piza” una focaccia. Questa parola si trova in un contratto di locazione di un mulino sul fiume Garigliano: il documento, conservato nell’archivio del duomo di Gaeta, afferma che oltre all’affitto ogni anno erano dovute ai proprietari “duodecim pizze” (12 pizze) a Natale e altrettante a Pasqua.
Il cuoco personale di papa Pio V, Bartolomeo Scappi, nella sua Opera del 1570 cita per la seconda volta la pizza, ma è un dolce fatto pestando in un mortaio mandorle, pinoli, datteri e fichi freschi, uva passa, unendo acqua di rose, rossi d’uovo, zucchero, cannella e mosto d’uva. Il tutto andava poi tirato in una sfoglia da infornare alta circa tre centimetri. Comunque, è il primo a legare la pizza a Napoli e si tratta pur sempre di una base su cui mettere sopra qualcos’altro.
La tradizionale schiacciata di farina di frumento impastata e condita con aglio, strutto e sale grosso continuava a incontrare il favore delle popolazioni del Meridione: l’olio d’oliva prende il posto dello strutto, si aggiunge il formaggio e si ritrovano le erbe aromatiche.
Agli albori del XVII secolo fece la sua apparizione una ricetta dal profumo di basilico, la pizza “alla Mastunicola” (in dialetto, del maestro Nicola). Da qui in poi il basilico diventa ingrediente basilare e privilegiato della pizza.
È solo nella seconda metà del ‘700 che si sparse infine in cucina in Italia l’uso di una bacca esotica, importata dalle Americhe: il pomodoro. Inizialmente, era solo una pianta decorativa. Bisogna dunque aspettare oltre al Settecento per veder comparire la pizza col pomodoro.
Le prime notizie riguardo alla pizza napoletana vengono fatte risalire a metà Settecento. Vincenzo Corrado è cuoco, filosofo e letterato italiano. Uomo di grande cultura, è soprattutto un grande gastronomo e uno dei maggiori cuochi che si distinsero tra il ‘700 e l’800 nelle corti nobiliari di Napoli. Scrive un pregevole trattato sulle abitudini alimentari della città di Napoli, Il cuoco galante 1773, in cui osserva come fosse già costume del popolo condire la pizza e i maccheroni con il pomodoro.
Il tipo di pizza più antico è la marinara. Raccoglie tutti gli ingredienti utilizzati fino ad allora: pomodoro, aglio, origano, olio extravergine d’oliva. Contrariamente a ciò che si può pensare, il nome non deriva da qualcosa che ha a che fare con il pesce, bensì al fatto che era il piatto che mangiavano i pescatori una volta rientrati in porto.
La pizza era popolarissima presso il popolino, ma la disdegnavano baroni, principi e regnanti. Fino all’arrivo di Ferdinando I di Borbone che, patito delle osterie dove andava di nascosto, amava in maniera smisurata la pizza. Tanto che aveva tentato più volte di introdurla nei menù di corte. Così decise nel 1815, per farla assaggiare alla consorte Maria Carolina e alle dame di corte, di farla cuocere nei forni di Capodimonte, vicino a quelli da cui escono le preziosissime ceramiche. Assunse per questo il miglior pizzaiolo della città, Antonio Testa, che divenne chef del regno.
La leggenda più diffusa sulle origini della pizza margherita vuole che nel giugno 1889 sia stato il cuoco Raffaele Esposito, proprietario della pizzeria Brandi, a proporre su invito dei funzionari regi il delizioso piatto alla regina d’Italia Margherita di Savoia, moglie di Umberto I. La preferita della regina pare sia stata la pizza condita con pomodori, mozzarella e basilico, anche per rappresentare i colori della bandiera italiana.
Il vero cuore della pizza è soprattutto la sua pasta, preparata con un impasto, la cui ricetta non prevede altro che: farina, acqua, sale, lievito di birra. Una buona pizza deve essere elastica e morbida, in maniera da poterla piegare senza difficoltà “a portafoglio“. La sua forma è circolare con un diametro massimo di circa 35 centimetri, rigorosamente steso a mano fino a formare un disco senza toccare mai i bordi, che formano il tipico cornicione alto 1-2cm al massimo (assolutamente senza bolle), mentre la parte centrale, dove risiedono i condimenti, sarà alta circa 4 millimetri. La cottura deve essere eseguita in forno a legna a circa 485°C per non più di 90 secondi.
Per l’Unesco, si legge nella decisione finale del dicembre 2017, «il know-how culinario legato alla produzione della pizza, che comprende gesti, canzoni, espressioni visuali, gergo locale, capacità di maneggiare l’impasto della pizza, esibirsi e condividere è un indiscutibile patrimonio culturale. I pizzaiuoli e i loro ospiti si impegnano in un rito sociale, il cui bancone e il forno fungono da «palcoscenico» durante il processo di produzione della pizza. Ciò si verifica in un’atmosfera conviviale che comporta scambi costanti con gli ospiti. Partendo dai quartieri poveri di Napoli, la tradizione culinaria si è profondamente radicata nella vita quotidiana della comunità. Per molti giovani praticanti, diventare Pizzaiuolo rappresenta anche un modo per evitare la marginalità sociale».