La Sardegna non è una grande rotella di liquirizia solo coste, mare, ma ha montagne, boschi, laghi, ecosistemi specifici. Appare quasi come un grande continente a sé stante. Ma non è così incontaminata come si pensa. Esercitazioni militari e attività industriali hanno causato e continueranno a causare danni alla salute dei cittadini e all’ambiente. Un sardo su tre è esposto al rischio di malattie da inquinamento contro la media italiana di uno su sei. Oggi si pone il problema della transizione energetica, ovvero, il passaggio da fonti di produzione energetica tradizionali, fondate su non rinnovabili (petrolio gas, carbone) verso quelle rinnovabili (eolico, solare…). L’obiettivo è quello di ridurre le emissioni inquinanti di anidride carbonica. In passato la tecnologia non ne consentiva lo sfruttamento a costi competitivi, oggi questo è possibile. Ma tutto ha un impatto, non solo economico ma anche ambientale. E qui torna in ballo la Sardegna, l’isola al centro del Mediterraneo, con pochi abitanti, circa 1. 600 000, con grandi spazi incolti, con una popolazione mediamente sempre più vecchia. Ma anche l’isola il cui paesaggio culturale è talmente importante da essere inserito tra i patrimoni dell’Unesco quale museo aperto; e ancora, l’isola in cui flora e fauna sono caratterizzate da tanti endemismi, ovvero, specie che vivono solo nella nostra isola. Tornando al discorso della transizione ecologica e, nello specifico a quella energetica, possiamo osservare che la produzione di energia elettrica è già maggiore del 40 % del fabbisogno netto sardo e che già viene esportata verso le altre regioni meno virtuose. L’assurdo? I cittadini sardi ricevono bollette per l’energia elettrica più salate dei connazionali. Oggi si chiede alla nostra isola una partecipazione alla produzione di “energia pulita” ancora maggiore attraverso la costruzione di nuovi parchi eolici. I dati ufficiali forniti dalla Regione Sardegna indicano la presenza di oltre 800 progetti, numeri che sono destinati a crescere. Non solo impianti da sviluppare sul territorio ma anche offshore, cioè in mare. Impianti alti quanto la Tour Eiffel. La nostra isola verrebbe trasformata in una sorta di puntaspilli; il nostro mare non avrebbe più un orizzonte. Tutto ciò che conosciamo e che ci rende orgogliosi di essere nati qui sparirebbe. Sorge spontanea una domanda. Ma questi impianti dureranno per sempre? No. Hanno bisogno di cure continue e costanti; le turbine degli impianti eolici hanno una vita media di 25 anni. I basamenti di cemento armato non sono biodegradabili e resteranno lì, dove verrebbero costruiti, anche dopo un’eventuale chiusura dell’impianto. E nel frattempo? Che fine faranno gli uccelli migratori? E i nostri nuraghi? Le Domus de janas? Quante verranno distrutte in nome del Dio denaro? Perché di questo si tratta, non transizione energetica ma speculazione. Si sta andando verso la distruzione di una cultura millenaria, antecedente alle piramidi d’Egitto, nel silenzio di chi ha il potere di divulgare informazioni. Nessuna notizia nei TG nazionali, nessuno scandalo. Forse se ne parlerà quando andremo tutti arrosto perché, nelle zone dove ci sono le pale eoliche, gli aerei antincendio non potranno più volare. Ma allora, cosa si può fare per ridurre l’inquinamento da fonti energetiche non rinnovabili? Sicuramente non è attraverso la distruzione di un intero sistema di vita che si può salvare il pianeta dal problema del cambiamento climatico causato dall’anidride carbonica. Ci vuole riflessione. Onesta riflessione a tutela delle generazioni future, a partire dalla lettura dell’articolo 9 della nostra Costituzione, unico punto fermo in questo caos di numeri: “La Repubblica … tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione. Tutela l’ambiente la biodiversità e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni…” Se siamo tutti sulla stessa barca allora tutti dobbiamo partecipare alla salvezza dal naufragio.