di Gilda Frogiero
Luca Trapanese è un attivista, autore, e personalità italiana molto conosciuta per il suo impegno nei diritti delle persone disabili e nell’adozione dei bambini con bisogni speciali. Ha adottato Alba, una bambina con sindrome di Down, diventando uno dei primi genitori single ad adottare in Italia. La sua storia ha ricevuto molta attenzione mediatica e ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi legati alla disabilità e all’adozione. Lo scorso sabato abbiamo avuto la possibilità di ospitarlo presso la nostra scuola, durante l’assemblea di istituto, e abbiamo potuto intervistarlo in merito alla sua vita e alla sua associazione.
- Lei ha fondato la sua associazione per sostenere i genitori di bambini con disabilità offrendo supporto e risorse. Quali sono le sfide più comuni dei genitori di bambini con disabilità? Come la sua associazione cerca di affrontarle?
- La mia associazione è nata circa vent’anni fa con l’idea di creare qualcosa di collaterale alla scuola perché i ragazzi disabili fin quando c’è la scuola hanno possibilità sociali e relazionali. Finita la scuola, però, finisce tutto perché lo Stato non si presta alla valorizzazione delle persone disabili ma ha ancora una visione di assistenzialismo. Difatti per le persone con disabilità è più complesso trovare un’occupazione ma, in generale, una propria autonomia. “A Ruota Libera” – la mia associazione – nasce proprio con l’idea di inclusione e di formazione delle persone con bisogni particolari. Ad oggi ci sono cinque comunità in cui abbiamo sviluppato tutta una serie di azioni pensate non più in modo passivo ma attivo rispetto alle inclusioni di persone disabili.
- Secondo lei qual è il motivo per cui l’Italia è indietro rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea riguardo le normative sulle adozioni da parte dei single?
- I motivi sono tanti. La legge sull’adozione è del 1983 e quindi stiamo parlando di più di quaranta anni fa, quando c’era UN modello di famiglia, o meglio, si pensava che quello fosse l’unico. La legge italiana sulle adozioni non è al passo con i tempi perchè oggi sappiamo che ci sono circa 35 modelli di famiglie, che un bambino cresce sereno se all’interno della famiglia le persone sono serene , a prescindere da se questi siano due, uno, separati, dello stesso sesso. In tanti altri Paesi dell’UE le normative sull’adozione fanno riferimento ad uno studio, ormai, accertato, secondo il quale anche le famiglie omogenitoriali (due papà o due mamme) sono famiglie sane. Tuttavia, bisogna riconoscere che, da alcuni punti di vista, la legge del 1983 era anche una legge all’avanguardia rispetto ai tempi perché riconosceva il diritto di un bambino disabile di essere adottato da un single quando, ai tempi, comunque le persone con la Sindrome di Down – nel mio caso particolare – erano considerate del tutto invalide, non potevano andare a scuola e non potevano fare tante altre azioni fondamentali nella quotidianità. Ciò non toglie che la legge sull’adozione del 1983 sia, ormai, ferma e crei una marea di disagi perché non tutela il rispetto dei diritti dei bambini e degli adulti.
- All’inizio del sesto capitolo del suo libro lei viene descritto come una persona irrequieta e rivoluzionaria: è sempre stato così o c’è stato qualche episodio che ha fatto mutare il suo comportamento nell’ambito sociale?
- Purtroppo sono sempre stato così. Tuttavia l’episodio che ha fatto scaturire questa mia incessante voglia di fare è stata la storia del mio migliore amico che, da giovanissimo, si ammala di un melanoma gravissimo. Nel ‘90 avevamo solo quattordici anni, non c’erano i social, non c’era Internet, non si parlava di tumori, eravamo veramente bambini e, tante cose che oggi si sanno, noi non le sapevamo. Io avevo capito che Diego stava male e l’ho accompagnato lungo tutto il percorso della malattia e anche nella fase finale, tant’è che lui muore stringendomi la mano e recitando il Padre Nostro. Questa esperienza mi ha portato a non scappare ma a capire e conoscere le cose. Da lì sono arrivato a Lourdes dove ho conosciuto la malattia e la disabilità; successivamente sono andato in India e in Africa dove ho conosciuto Madre Teresa e tante altre realtà. Posso dire che da quel momento non mi sono più fermato!
- Come è stato conciliare l’arrivo di Alba con il lavoro che svolge nella sua associazione?
- È stata la cosa più semplice e naturale del mondo. Ho sempre portato Alba con me, noi abbiamo una casa nel borgo sociale dove conosce tutti i ragazzi, per i quali lei è come una nipotina, una sorella minore. Il mio problema è oggi che sono assessore alle politiche sociali e, quindi, coordinare Alba, l’assessorato e tutto il resto a volte può essere complesso ma, per fortuna, c’è una tata che mi aiuta. Inoltre mi sono imposto di dedicarmi completamente ad Alba nei fine settimana, che passiamo in compagnia di amici e in cui mi presto alle attività padre-figlia.
- Nonostante la tenera età come ha vissuto i vari affidamenti, illustrati sia nel film che nel libro, la piccola Alba?
- Alba è arrivata a casa a 27 giorni e non è mai più uscita. Quello che vedete è una trovata cinematografica importantissima, necessaria per denunciare che quattro bambini al mese del tribunale di Napoli vengono restituiti. Io volevo che questo film fosse un film sociale, cioè andasse oltre la storia mia e di Alba, e che quindi proiettasse tutti i problemi e i temi tra cui anche la restituzione dei bambini, assai frequente nei tribunali italiani. Ciò implica un problema enorme rispetto alla vita di un minore perchè essere “restituiti” significa tornare in una comunità e tornare a sperare che qualcuno ti voglia. Questo discorso è fortemente legato ai limiti della legge dell’83 che non permette l’adozione da parte di single o da coppie “diverse” se non in casi particolari, come con le disabilità.
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