Di Elena Carbutti
Il 2 ottobre si celebra la festa dei nonni e come da tradizione, soprattutto per i bambini delle elementari, ci si cimenta nella realizzazione di piccoli manufatti da regalare ai propri nonni: una poesia, un bigliettino, un disegno che finiscono attaccati per anni al frigo, ricordi che ti fanno sorridere quando dopo tempo li riguardi… Ma più che sorridere, talvolta fanno riflettere e senza accorgertene assumi un’espressione più seria, quasi corrucciata, e con il dito segui i contorni di qualcosa realizzato da te ma che non senti più tuo, come qualcosa di rimosso, un caramella di cui, una volta ingoiata, ti rimane solo un retrogusto un po’ strano, non sgradevole, ma diverso. E pensi, sempre imbambolata nello stesso punto, ma in realtà persa in ricordi lontani, di due, cinque, dieci anni fa, pensi chi era la bambina che aveva fatto quel disegno e cosa provava, cosa voleva trasmettere, e ricordi, ma ricordi tutto come spettatore più che come protagonista. E in quel momento, scandagliando le memorie di quella che sembra una vita fa, ti accorgi che tutto è cambiato, a poco a poco, senza che te ne rendessi conto, facendoti adeguare gradatamente. Un po’ come quando ritorni in un luogo della tua infanzia e tutto sembra più piccolo, più basso di quanto ricordassi, anche se in realtà tutto è uguale, tranne te. Ed è esattamente così anche con i nonni, con il rapporto che si crea con loro. I nonni li conosciamo, sono una costante nella vita, non c’è mai stato un momento delle presentazioni o un periodo di conoscenza l’una degli altri: semplicemente si è nati e quando si è stati tra le loro braccia per la prima volta, si è sancito un legame, un silenzioso dialogo tra visi rugosi e occhi felici e visetti tondi e occhi ancora cisposi. In quel momento li si è conosciuti, si è iniziato quel lungo percorso a cui ogni giorno si aggiunge un tassello, una conversazione mai finita che perdura da sempre e ogni giorno tratta qualcosa di nuovo. Non ci ricordiamo la nostra infanzia, eppure sappiamo, con una strana sensazione nella pancia, che loro ci sono sempre stati, anche se in modi differenti.
Nell’infanzia, infatti, vige quell’idealizzazione dei nonni, che li relega al confine con le fiabe: i nonni sono coloro che ti abbracciano e che hanno i capelli bianchi, che ti comprano dolci e giocattoli, che ti tengono sulle ginocchia e ti raccontano le favole della buonanotte, che ti fanno mangiare tutte le caramelle che vuoi e non ti sgridano mai… per me questo sono stati i nonni e nonno Salvatore, morto quando ero piccola, rimarrà sempre una figura evanescente confinata in quel mondo fantastico, che termina alla fine dell’infanzia. Da quel momento i nonni diventano figure concrete, diventano persone, e non più solo nonni, diventano figli, mogli, mariti, fratelli, sorelle, madri, padri, amici, diventano donne e uomini con un passato che nemmeno immaginiamo e tante storie nascoste tra le rughe e dietro i capelli bianchi. Diventano presenze con una propria vita e una propria identità che esula da noi, diventano qualcosa di reale, diventano emozioni, fatica, gioie e lacrime, sorrisi e litigi. Nonna Titina, per esempio, è quel particolare odore di pulito, inconfondibile e unico, che dà quasi la sensazione fisica di mani morbide che ti accarezzano. E’ quel suono di passi, un po’ strascicato e dondolante che ti concilia il sonno quando lo senti in corridoio. E’ quel merletto posto sempre così e quelle tende stirate sempre nello stesso modo, quel panino alla Nutella preparato con un cucchiaio di troppo e quella spremuta fatta in casa, che la bevi in un sorso. E’ la donna ancora grintosa e forte nonostante tutto, quella che tira avanti nonostante i dispiaceri, quella che, nonostante sembri la più fragile, con la pelle di seta e la corporatura piccina, rimane una leonessa quando si tratta di proteggere chi ama, che non si fa scrupoli a gridare con i figli e che è sempre schietta, che beve da 70 anni il suo bicchiere di vino a pranzo e la tazza di caffè di pomeriggio, quella che unisce alle carezze e ai baci sulle guance le strette energiche del “ce la puoi fare, ce la devi fare e guai a te se ti arrendi”. Nonna Titina è Agata Tammaccaro, quella ragazza bellissima e timida, a cui puoi passare anni a osservare la foto e che guardandola oggi, ti chiedi “riuscirò ad essere alla sua altezza?”, la stessa Agata Tammaccaro che ha cresciuto tre figli e cinque nipoti e lo fa tuttora, svegliandosi ancora alle sei per dare il biberon alla piccola di casa, la stessa donna che la sera si siede accanto a me e ascolta, con quella pazienza, calma e saggezza data dall’età, dall’aver visto troppe cose per lasciarsi spaventare, e fa sembrare i miei drammi facezie, senza sminuire ma rimettendo le cose in prospettiva, infondendomi un po’ di quella sua così grande forza d’animo, e abbracciandomi sempre. La nonna Titina non è più quelle delle fiabe e delle cioccolate, o meglio è anche quello, ma soprattutto è la confidente, quella che ti sostiene e ti capisce in un modo che solo la nonna può fare, estraneo a madre e zia, quella che ti fa stare bene, dandoti insieme ad una caramella, un pezzetto di infanzia e un assaggio dell’età adulta.