PALERMO – Visibile a Palermo (in un’unica sala) e in altre città italiane solo dal 6 all’8 novembre come evento speciale cinematografico, “Io, noi e Gaber”, scritto e diretto da Riccardo Milani, è il docu-film che ha avuto il merito di raccontare la parabola artistica di Giorgio Gaber e un pezzo importante di storia del nostro paese. Due ore e quindici minuti di visione sono trascorse in un lampo, tanto toccante è stata la ricostruzione del percorso musicale e culturale di Gaber, al secolo Giorgio Gaberscick, nato a Milano il 25 gennaio 1939 e morto a 63 anni per un carcinoma ai polmoni.
Decine di spezzoni delle sue apparizioni televisive (dalle prime a Il Musichiere e alla Lotteria Italia, con Adriano Celentano e Enzo Jannacci al pianoforte, all’ultima nell’aprile 2001, ancora con Celentano e Jannacci insieme a Dario Fo e a Antonio Albanese, con una straordinaria interpretazione corale di Ho visto un re), varie riprese degli spettacoli teatrali e tante canzoni ne ricordano lo spessore di chitarrista (fu tra i primi interpreti del rock and roll italiano), cantautore, attore, regista teatrale, precursore del genere “teatro canzone”.
A risentirle, ci si rende conto che le canzoni di Gaber sono state la colonna sonora di tante generazioni, a partire dai quella dei baby boomer: dai primi successi all’inizio degli anni ‘60 Non arrossire, La ballata del Cerruti alle successive Torpedo blu, Com’è bella la città, Il Riccardo, Barbera e champagne, alle canzoni ‘impegnate’ quali La libertà, Destra-Sinistra, Chiedo scusa se parlo di Maria, La strada, Il conformista, Se fossi Dio, Far finta di essere sani, Io non mi sento italiano…
Il docu-film a un certo punto racconta come, al culmine del successo, all’inizio degli anni ’70, Gaber decida di abbandonare la televisione e fare il suo ingresso in teatro, inventando, insieme a Sandro Luporini, il “teatro canzone”, dove può esprimere più compiutamente il suo spessore culturale, oltre che musicale, e la sua visione sociale e politica, nel senso pieno e alto del termine.
Ecco cosa diceva di questa scelta il cantautore stesso: “La fine degli anni Sessanta era un periodo straordinario (…), e fare televisione era diventato dequalificante. Mi nauseava un po’ una certa formula, mi stavano strette le sue limitazioni di censura, di linguaggio, di espressività, e allora mi dissi, d’accordo, ho fatto questo lavoro e ho avuto successo, ma ora a questo successo vorrei porre delle condizioni. Mi sembrò che l’attività teatrale riacquistasse un senso alla luce del mio rifiuto di un certo narcisismo” (dal libro Giorgio Gaber, di G. Harari, gennaio 1993).
A raccontare l’artista ormai divenuto “Il signor G”, ci sono le testimonianze di chi l’ha conosciuto bene come la figlia Dalia Gaberscick, il nipote Lorenzo, lo storico paroliere Sandro Luporini; e le riflessioni di cantanti, artisti e anche di uomini politici: Mario Capanna e Pier Luigi Bersani, Jovanotti, Ivano Fossati, Gianni Morandi, Paolo Jannacci, Gino e Michele, Fabio Fazio, Michele Serra, Mogol, Ricky Gianco, Claudio Bisio, il giovane attore Francesco Centorame, Michele Serra.
Quest’ultimo lo ha definito “un intellettuale promiscuo”, “raffinato e popolare, di popolo e di élite”, artista coraggioso che è passato da “re del varietà popolare” (insieme ai magnifici Mina, Jannacci, Celentano aveva rivoluzionato la maniera di fare televisione) a interprete assoluto del teatro canzone, capace di affrontare senza timore reverenziale anche temi importanti e scottanti. Nel docu-film, si evidenzia sia il grande talento musicale di Gaber che, per usare le parole di suo nipote Lorenzo “avrebbe potuto mettere in musica l’elenco del telefono”, sia la maestria dell’uomo di spettacolo capace di utilizzare un “corpo scenico”, che in teatro “sembrava posseduto”, rendeva “la parola visibile” e quasi trasformava se stesso in “melodia cinetica”.
Tutte le voci narranti sono concordi nel dire che Gaber è stato sempre più avanti di altri intellettuali, lungimirante e profetico con le sue analisi e le sue canzoni di denuncia, capace di anticipare il futuro, senza farsi condizionare dalle ideologie, anche da quella di sinistra, elettivamente sua, con l’onestà intellettuale di riconoscere “quando la merda è merda”, anche a rischio di non essere capito, di risultare scomodo e di venire isolato.
Grazie allora a Riccardo Milani per questo ritratto a tutto tondo del grande cantautore. E grazie soprattutto all’immenso Gaber che, in questo tempo di riflusso e di disperazione, di scarsa partecipazione alla vita politica, ci ricorda, con le parole di una sua celebre canzone che “c’è solo la strada su cui puoi contare/La strada è l’unica salvezza/C’è solo la voglia, il bisogno di uscire/Di esporsi nella strada, nella piazza/Perché il giudizio universale/Non passa per le case/In casa non si sentono le trombe/In casa ti allontani dalla vita/Dalla lotta, dal dolore, dalle bombe/Perché il giudizio universale/Non passa per le case/Le case dove noi ci nascondiamo/Bisogna ritornare nella strada/Nella strada per conoscere chi siamo…”.
Maria D’Asaro
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